Curare è il primo segno della civiltà

“Uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo”.
Questa storia attribuita a Margaret Mead la si ritrova da anni su vari blog o forum. Se si tratti di un fatto realmente accaduto o di una “leggenda universitaria” non sappiamo. 
Quel che è certo è che individua il punto esatto del senso di comunità e cura dell’altro.





Ci può essere sempre una possibilità, ovvero “credo negli esseri umani”, direbbe Dio

Ne parlavamo l’altro giorno a scuola: la nostra fede spesso o a volte vacilla, ma c’è qualcuno che crede sempre negli esseri umani. Questo Qualcuno è Dio. Lo stiamo vedendo nelle storie della Bibbia su cui ci stiamo confrontando (mi rivolgo in particolare agli alunni di prima media), che Dio ha avuto pazienza anche quando le persone da lui chiamate lo hanno tradito o non erano proprio all’altezza del compito affidato. E’ come se Dio dicesse, parafrasando la canzone che avevamo ascoltato, “credo negli esseri umani”.
Insomma, l’essere umano, anche quando sembra aver perduto la sua umanità, può riscattarsi. Questo per il messaggio biblico è possibile, perché ognuno di Dio rimane sempre “immagine di Dio”, anche quando questa immagine rimane distorta per le fragilità umane. 
Proprio per questo voglio raccontarvi la storia che ho letto in Avvenire del 26 gennaio 2021, a firma di Ferdinando Camon

[…]il comandante di Auschwitz, prima di essere impiccato, chiese di potersi confessare, gli fu concesso ed ebbe l’assoluzione. Ma detto così è detto male, con poca precisione, e qui occorre essere precisi. 
Il lager di Auschwitz fu liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio 1945, siamo appunto nell’anniversario della liberazione: noi italiani la ricordiamo come la racconta Primo Levi, che in quel periodo non era nel suo lager, La Buna, un piccolo lager satellite, ma era ricoverato per malattia nel campo-madre, Auschwitz 1, e questo ricovero fu causa della sua salvezza. Se fosse rimasto nel suo campo, tra i sani, sarebbe stato costretto alla marcia di trasferimento a piedi verso un altro lager, per sfuggire all’Armata Rossa che arrivava, e in quella marcia sarebbe morto, come gran parte dei suoi compagni. Ma era malato, fu ricoverato e dimenticato. Nella baracca, dove giaceva, i suoi compagni di malattia morivano a gruppi, i cadaveri venivano portati fuori e abbandonati nel cortile. 
Levi stava portando via un compagno morto quella mattina, e sul portone del lager vide arrivare quattro soldati a cavallo, con il mitra a tracolla. Non erano della Wehrmacht, erano russi. In quel punto (ci sono stato) la strada è un po’ più alta del campo, e da lì si può vedere dentro le prime baracche. Guardando dentro, i soldati videro i prigionieri scheletriti, i moribondi immobili, e chinarono la testa, in segno di vergogna. 
Penso spesso a quella vergogna, al suo significato. La risposta che mi do è questa: Auschwitz fa vergognare l’umanità intera, c’è Auschwiz e tutta l’umanità deve vergognarsi. Auschwitz è indicibile. Solo i testimoni hanno diritto di parlarne. Scrittori, registi, poeti no. Io no. Se ne parlo, uso sempre le parole di Primo Levi, non le mie. Lo scopo delle SS («Faremo cose tali, che non potrete raccontarle, perché nessuno vi crederà »), è raggiunto. 
Fra le tante imprese di barbarie compiute dall’umanità, Auschwitz è il vertice. Il comandante di Auschwitz è uno dei più grandi criminali che la storia conosca. A fine guerra scappò, ma fu rintracciato, catturato, processato, condannato a morte e impiccato. «E ciò fu giusto», scrive Levi da qualche parte. Il mite, dolce, perdonante Levi, verso il comandante di Auschwitz era per la condanna a morte. Il comandante era un bavarese, si chiamava Rudolf Hoess, scritto anche Höß o Höss o Hoeß, un nazista della prima ora, tenace organizzatore dei campi di sterminio, molto apprezzato nella gerarchia. 
Era nato cattolico, e durante gli anni del potere si dimenticò totalmente del suo cattolicesimo, ma prima di essere impiccato si riconvertì e infine chiese di potersi confessare. Gli fu concesso dai custodi polacchi, mentre gli inglesi erano contrari. Per giorni si cercò inutilmente un prete cattolico disposto ad ascoltare la sua confessione, finché lo stesso Hoess suggerì di cercare un gesuita a cui lui aveva inspiegabilmente fatto grazia della vita, dopo aver sterminato tutta la sua comunità così come aveva mandato a morire il santo francescano Massimiliano Kolbe. 
Il gesuita accettò di ascoltare la confessione del comandante di Auschwitz (inventore del gas Zyklon B, a lui veniva attribuita la responsabilità di 2 milioni e mezzo di vittime), venne e lo ascoltò: esiste una lettera del gesuita a una suora, il gesuita racconta che «la confessione durò e durò e durò», interminabilmente, finché lui pronunciò la formula dell’assoluzione chiamandolo anche con il suo terribile appellativo: «l’animale». A quel punto, il comandante scoppiò a piangere, e continuò a piangere anche il giorno dopo mentre lo impiccavano. 
Ho visto la forca, è ancora lì. Darei chissà che cosa per sentire quella confessione. Perché se fu possibile assolvere il comandante di Auschwitz, allora non c’è nessun colpevole sulla Terra che non possa pentirsi e non possa essere assolto.


La scelta per la libertà: scimmie o “santi”?

Immagine: JORIS HOEFNAGEL Animalia Qvadrvpedia et Reptilia (Terra): tavola XXXII, c. 1575/1580 acquarello e tempera, con bordo ovale in oro su pergamena 14,3 x 18, 4 cm National Gallery Londra

Due scimmie, sfuggite al controllo del padrone, hanno preso d’assalto il tavolo della cucina. In questa bella illustrazione che appartiene a un antico libro botanico del XVI secolo, la presenza della mela e delle cipolle non è casuale, perché l’autore ha voluto farci capire qualcosa di molto profondo. 
Provo a spiegarvelo, attingendo dall’articolo di Maria Gloria Riva, pubblicato su Popotus, inserto del giornale Avvenire del 21 gennaio 2021. 
In ebraico “scimmia” si dice Kof, parola che è anche una lettera e un numero, il 100, ma la lettera Kof è anche la lettera della parola santo, Kadosh. Questo significa che l’uomo non può restare neutrale: o si dirige verso il bene (cioè buono al 100 per 100) e raggiunge Dio diventando santo (kadosh), oppure retrocede a ciò che è solo apparentemente umano, ma che è invece scimmiesco (kof, scimmia, appunto). Ecco allora svelato il segreto del cibo delle scimmie qui riprodotte: la mela, frutto del peccato originale (NdR anche se in realtà nel testo biblico il frutto non è definito), simboleggia l’uomo che si allontana dal paradiso (cioè dal suo 100); la cipolla, invece, simboleggia l’inganno del Maligno che presenta all’uomo cose apparentemente buone, ma che poi fanno piangere. 
In questa immagine, una scimmia sta già mangiando mezza mela: è già stata ingannata, l’altra metà della mela, infatti, si trova in primo piano di fianco a una cipolla. La seconda scimmia, invece, è davanti a una mela intatta e ci guarda, quasi volendo chiedere: e tu cosa vuoi fare? 
Le scimmie imitano l’uomo, senza però capire il senso di ciò che fanno, noi umani, invece, possiamo combattere tra l’istinto che ci fa essere scimmia e la “vocazione” a realizzarci pienamente. 
Questa immagine ci dice che se vuoi essere un uomo vero al 100 per 100, cioè santo, non puoi lasciarti vincere dalla falsità e dall’inganno, rimanendo istintivo come la scimmia. 
La libertà, quella vera, è frutto della scelta di abbandonare l’istintività per assumere la responsabilità delle scelte che ci rendono veramente umani e, per questo, santi. 

Abbiamo visto cose…..

Il replicante Roy Batty, nel film di fantascienza Blade Runner del 1982, diceva: «I’ve seen things you people wouldn’t believe…».
Nella lunga Quaresima di questo 2020, anche noi abbiamo visto cose che non avremmo mai immaginato di dover vedere.
Come ne usciremo? Io vorrei che custodissimo queste immagini, non per continuare a farci del male o per una sorta di compiacimento dello straordinario o del macabro, ma per ricordarci che la vita va apprezzata, che la superficialità va bandita in ogni dove, che “tutto andrà bene” se saremo capaci di fare squadra e di non lasciarci guidare dall’orgoglio e dalla superbia.
Papa Francesco lo ha detto e lo sta dicendo in tutte le salse, che il mondo deve riscoprire la solidarietà, l’attenzione per i bisognosi, la cura della Terra.
Vi lascio un suo pensiero, tratto dal momento di preghiera per l’umanità tenutosi in una piazza san Pietro terribilmente vuota, ma straordinariamente piena del palpitare dei cuori di tantissime persone.


Il dono vero del Natale

Dall’Omelia di Papa Francesco nella notte di questo Natale 2019.

Ecco il dono che troviamo a Natale: scopriamo con stupore che il Signore è tutta la gratuità possibile, tutta la tenerezza possibile.
La sua gloria non ci abbaglia, la sua presenza non ci spaventa.
Nasce povero di tutto, per conquistarci con la ricchezza del suo amore.
E’ apparsa la grazia di Dio.
Grazia è sinonimo di bellezza.
Stanotte, nella bellezza dell’amore di Dio, riscopriamo pure la nostra bellezza, perché siamo gli amati da Dio.
Nel bene e nel male, nella salute e nella malattia, felici o tristi, ai suoi occhi appariamo belli: non per quel che facciamo, ma per quello che siamo. c’è in noi una bellezza indelebile, intangibile, una bellezza insopprimibile che è il nucleo del nostro essere.
Oggi Dio ce lo ricorda, prendendo con amore la nostra umanità e facendola sua, “sposandola” per sempre.

Credo

Non potevo non condividerlo.



«Credo nello sguardo della Gioconda e nei disegni dei bambini.
Nell’odore dei panni stesi, e in quello delle mani di mia madre.
Credo che quando la barbarie diventa normalità, la tenerezza è l’unica rivoluzione.
Credo che la vera gioia sia sentirsi parte di un paesaggio incantevole, pur non essendo altro che un minuscolo granello di sabbia.
Credo che la lingua di Dio è il silenzio, e il suo corpo la Natura.
Credo alla potenza del soffione, quel minuscolo fiore selvatico che cresce ostinato tra le pieghe dell’asfalto e pure in mezzo a mille difficoltà, riesce comunque a germogliare e a diventare fiore. Credo che chi non vive il presente, sarà sempre imperfetto. Pure da trapassato.
Perché la vera sfida è debuttare ogni giorno, tutto il resto è repertorio.
Credo che non sia la bellezza che salverà il mondo, ma siamo noi che dobbiamo salvare la bellezza
e che non c’è peggior peccato che non stupirsi più di niente
e che tutta la scienza, la cultura e l’intelligenza del mondo non basta
e si inchini davanti a questo enorme mistero in cui tutti siamo avvolti,
al miracolo di questa vita che va avanti e si trasforma ogni momento.
Questa vita che non si ferma, che va contro tutto e tutti.
Perché la vita è l’unico miracolo a cui non puoi non credere».

Favola di Natale 2018

In quel tempo l’Angelo di Dio portò l’annuncio ai pastori di andare a Betlemme: avrebbero trovato un bambino deposto in una mangiatoia.

Come i pastori giunsero davanti alla capanna, la trovarono chiusa. C’era un cartello con su scritto: «Comune di Betlemme. A seguito di verifiche strutturali e della relativa documentazione edilizia, questa abitazione viene dichiarata inagibile, per violazione delle norme urbanistiche».
I pastori allora chiesero in giro e venne detto loro che erano venuti anche gli ispettori del Dipartimento di Igiene ed avevano fatto uscire tutti, perché partorendo in una stalla avevano violato le norme igieniche.

Poi la Protezione Animali aveva portato via l’asino ed il bue perché: l’asino non risultava vaccinato nel registro degli animali da trasporto, mentre il bue andava abbattuto avendo superato l’età prevista per gli animali da macello.
Quando chiesero dove fosse san Giuseppe, risposero che era in carcerazione preventiva in attesa di giudizio, dopo aver perso la patria potestà, perché non si era rivolto al reparto di ostetricia, ma aveva favorito una nascita a rischio.

Poi era passibile del reato di: abuso della professione infermieristica, per avere prestato assistenza ad una partoriente, privo di adeguati titoli professionali.
La Madre invece era stata portata con ricovero coatto in una comunità di assistenza e cura psichiatrica.

Perché non aveva voluto seguire la procedura di aborto terapeutico per motivi di disturbo mentale consigliatale a Nazareth dal Consultorio locale, quando aveva dichiarato di essere incinta, ancora vergine, per opera dello Spirito Santo.
Il Bambino infine era stato portato al reparto di neonatologia dell’ospedale di Gerusalemme, ma era misteriosamente sparito.

Al suo posto era stato trovato un biglietto con questo scritto:

«Cari signori, ritorno in cielo, perché anche se sono onnipotente, temo di non riuscire a svolgere la mia opera di salvezza, finché non avrete trovato il modo di liberarvi da questa massa di leggi e decreti, che voi avete scritto, credendo di salvare il mondo a forza di leggi fatte per obbligare gli altri, ma senza impegnarvi davvero a diventare tutti, almeno un po’ di più, uomini di buona volontà».

Mons. Nazareno Marconi, Vescovo di Macerata, omelia della notte di Natale

Adulti che non amano abbastanza il mondo

Una frase che invita noi adulti alla grande responsabilità che abbiamo verso noi stessi e soprattutto verso le giovani generazioni. Alcune domande sono inevitabili.
Con la nostra incapacità di dare risposte credibili alle domande dei giovani, che sono costretti a cercarle da altre parti (droga, alcool, trasgressione,ecc…), non è che dimostriamo di non amarli abbastanza? E, in un certo senso, di non amare abbastanza neanche questa vita e questo mondo che abitiamo?
No sono i giovani il problema,  ma siamo noi adulti, incastrati nel nostro egocentrismo, incapaci di desideri che vadano oltre il personale tornaconto. Siamo degli «irresponsabili», nel senso che siamo incapaci di prendere sul serio il desiderio di vita dei nostri ragazzi dando loro risposte credibili.