Serve credere in Dio oggi?

Non so se avete saputo del Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali in Kazakistan. In effetti non è che se ne sia parlato granché. Di religione non se ne parla poi tanto (a meno che la religione non faccia scandalo) e in fondo sono sempre più le persone che la ritengono irrilevante per la vita. 
Credere serve a qualcosa? Verrebbe da dire di no. 
Di per sé non a fare carriera o ad avere successo, neanche ad apparire interessanti o usufruire di un’esistenza comoda. Tantomeno a diventare più belli o più intelligenti. Insomma, credere in apparenza non serve a niente. 
Tranne che a sentirsi piccoli di fronte all’amore infinito di un Padre per cui siamo tutti figli unici. Tranne che a voler imparare l’arte ‘disumana’ del perdono. 
Tranne che a cercare bellezza anche negli angoli più sporchi del nostro cuore. 
Tranne che a riconoscersi tutti parte di una stessa famiglia di uomini e donne capaci di vivere come fratelli e sorelle. 
Tranne che a scoprire, poco a poco, in noi e negli altri quei semi di eterno che saranno la trama del ‘dopo’ che ci attende. 
È lì la radice della speranza che, come insegna il libro del profeta Geremia, non è sterile ottimismo ma la promessa che il Signore fa di esserci sempre accanto, di non far mai mancare la sua presenza nella storia, personale e collettiva. Perché è l’umanità fatta di persone che danno senso al credere. 
Per dirla con papa Francesco, là dove riprende l’enciclica Redemptor hominis di Giovanni Paolo II, «l’uomo è la via di tutte le religioni». 
Sì, proprio l’essere umano così imperfetto e fragile, che non sussiste da solo, incapace di seminare futuro quando si chiude a chiave nel proprio guscio, con la paura di uscire. Se lo si mette al centro, prima degli interessi economici e militari, prima dei nazionalismi e della corsa al dominio, si toglie significato finanche alla guerra, la si riduce a vuoto, inutile incubo. 
Se le religioni non dimenticassero la loro radice, che è l’essere proiettate in una dimensione altra, (‘nel’ mondo ma non ‘del’ mondo, per usare un’immagine evangelica), non potrebbero mai diventare puntello del potere, giustificare i fanatismi, i fondamentalismi, la violenze in nome di Dio, l’odio che lo profana. Distorsioni che sfigurano l’essere umano e così facendo svuotano il senso del credere, lo sgonfiano come un palloncino privo di cielo. 
Il Papa, ‘leggendo’ la dichiarazione finale dei leader religiosi, ha indicato in tre parole chiave il perimetro entro il quale fedi diverse possono più facilmente camminare insieme: 
  • Pace, come «sintesi di tutto», come grido accorato e sogno, soprattutto come opera della giustizia scaturita dalla fraternità;
  • Donna, a indicare cura e vita («Quante scelte di morte – ha sottolineato Francesco – sarebbero evitate se le donne fossero al centro delle decisioni»);
  • Giovani: a cui dobbiamo dare in mano le chiavi del domani che si costruisce già oggi, a partire dalla cura della casa comune, la madre Terra di cui siamo i custodi-principi. 

La fede è una luce che si offre come lampada sempre accesa per i bisogni del cuore, come lente d’ingrandimento sui passaggi del Signore nella nostra vita. 
Credere a qualcosa allora serve: a imparare a vedere il mondo con gli occhi di Dio, a eliminare dal vocabolario la parola nemico. Soprattutto a riconoscere in Lui non un giudice o un guerriero vendicativo ma un Padre attento e misericordioso, desideroso di stringere tutti i suoi figli nel medesimo abbraccio. 

Adattato da RICCARDO MACCIONI in AVVENIRE del 16/09/2022. 

Ho bisogno di credere

Fabrizio Moro commenta così il suo nuovo singolo: «Credo nelle buche dove sono inciampato, e credo nei giorni in cui ho sbagliato perché ogni mio errore, nel bene e nel male, mi ha reso quello che sono oggi… un essere umano con tanti limiti ma, consapevole che nella vita, oltre alla libertà, va ricercata la fede… qualsiasi essa sia, la fede ti dà la forza di continuare a camminare anche se le tue ginocchia sono ormai rotte. “Ho bisogno di credere” racconta questo, racconta ogni passo fatto con la speranza che le scarpe di “ferro pesante” che portiamo, un giorno possano diventare più leggere in un percorso di totale scetticismo.»

La viva e calda pienezza del cuore

Ancora alcuni pensieri che potranno fare bene al nostro cuore.
«Personalmente, da quando ho memoria di me, i conti non sono mai riuscita a farli tornare.
L’idea di un Dio onnipotente – che può fare o non fare ogni cosa, secondo un suo imperscrutabile desiderio – mi è sempre stata piuttosto ostile.
Non amo l’autorità e, dove c’è il potere, fuggo a mille miglia in direzione opposta. E allora?
Non sarebbe più facile, più rasserenante dire il Cielo è vuoto o, se Qualcuno c’è, si disinteressa del nostro destino? Sì, se il mio pensiero fosse solo frutto della mente, ma ho sempre avuto la nitida percezione che la centralità dell’essere non stia nelle elucubrazioni cerebrali, bensì nella viva e calda pienezza del cuore.
È il cuore ad indicarci sempre la strada giusta da percorrere. È il cuore, con la sua vulnerabilità, che ci fa capire – se accettiamo il rischio di entrare nelle sua parte profonda – che il nostro cuore e quello di Dio si compenetrano e si rigenerano costantemente a vicenda, grazie al soffio dello Spirito Santo. Noi siamo partecipi della natura di Dio. Ce ne ricordiamo quando ci osserviamo nello specchio? Ne siamo consapevoli nelle scelte della nostra vita?
Sappiamo ancora di essere soltanto «un po’ meno degli angeli»? E che cos’è questo partecipare, se non trasformare il proprio cuore in una fornace ardente?».
Susanna Tamaro, Come un’ardente fornace, in Avvenire del 27 dicembre 2014

Le religioni sono una risposta

Il sentimento religioso nasce dalle domande che riguardano il senso ultimo, definitivo della propria vita, della storia di tutti gli uomini, dell’intero universo.
Le religioni, anche se in modo diverso, aiutano l’uomo nella ricerca di un significato per la propria vita, formulando ipotesi di risposta ai grandi interrogativi esistenziali:

  • sulla natura dell’uomo;
  • sul senso e il fine della vita;
  • sul bene e sul male;
  • sul peccato;
  • sull’origine e lo scopo del dolore;
  • sulla via per raggiungere la felicità;
  • sulla morte;
  • sull’aldilà.

Vi lascio alcuni link per introdurci al percorso di ricerca di alcuni personaggi.
Si tratta di uomini che si sono lasciati interrogare dalla loro vita, che non si sono accontentati di risposte preconfezionate.

A questi link aggiungo alcune parti di un documento del Concilio Vaticano II, la Nostra Aetate, in cui la Chiesa ci dice qualcosa proprio sulla ricerca di senso che accompagna gli esseri umani e sulle religioni.

Abramo 
Buddha
Agostino
SanFrancesco  

 

I Magi: cercatori di senso, cercatori di verità

 

I magi, questi personaggi misteriosi, si mettono in movimento, si allontanano dalla loro terra e camminano alla ricerca di un re, del Re.
Il Vangelo di Matteo (2,1-12) mette in risalto questa realtà attraverso alcuni verbi, che accompagnano lo svolgersi della vicenda: giunsero, siamo venuti, li inviò, andate, partirono, li precedeva, entrati, non tornare, fecero ritorno.
Il percorso fisico dei magi nasconde in sé un viaggio ben più importante e significativo, che è quello della fede; è il movimento dell’anima, che nasce dal desiderio di incontrare e conoscere il Signore. Ma allo stesso tempo è anche l’invito di Dio, che chiama e attira con forza a sé; è Lui che fa alzare in piedi e pone in movimento, che offre indicazioni e non smette mai di accompagnare.
La Scrittura ci offre molti esempi importanti.
Ad Abramo Dio disse: “Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12, 1). Anche Giacobbe fu pellegrino di fede e di conversione; di lui, infatti, sta scritto: “Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran” (Gen 28, 10) e: “Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli orientali” (Gen 29, 1). Dopo molti anni il Signore gli parlò e gli disse: “Torna al paese dei tuoi padri e io sarò con te” (Gen 31, 3). Anche Mosè fu un uomo del cammino; Dio stesso gli ha disegnato la strada, l’esodo, dentro al cuore, nelle viscere e ha fatto di tutta la sua vita una lunga marcia di salvezza per sé e per i suoi fratelli: “Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo!” (Es 3, 10).
L’esodo non si è mai interrotto; la liberazione, che viene dalla fede, è sempre in atto. Guardiamo a Gesù, ai suoi apostoli, a Paolo: nessuno sta fermo, nessuno si nasconde. Tutti questi testimoni ci parlano, oggi, attraverso la loro vicenda e ci ripetono: “Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio” (Sal 83, 6).
stella-cometa-Re-MagiPer quanto riguarda la stella, in questo racconto del viaggio dei Magi è un elemento molto importante, perché ad essa è affidato il compito di guidare i magi alla loro meta, di rischiarare le loro notti di viaggio, di indicare con precisione il luogo della presenza del Signore.
In tutta la Bibbia le stelle compaiono come segni di benedizione e di gloria, sono quasi una personificazione di Dio, che non abbandona il suo popolo e, allo stesso tempo, una personificazione del popolo, che non si dimentica del suo Dio e lo loda, lo benedice (cfr. Sal 148, 3; Bar 3, 34).
Per la prima volta il termine stella appare, nella Scrittura, in Genesi 1.16, quando, giunto al quarto giorno, il racconto della creazione narra dell’apparizione nei cieli del sole, della luna e delle stelle, come segni e come luci, per regolare e per illuminare. Il termine ebraico “stella” kokhab (Caf waw (H) caf bet) è molto bello e denso di significato; le lettere che lo formano, infatti, ci svelano l’immensità della presenza che questi elementi celesti portano in sé. Troviamo due caf, che significano “mano” e che racchiudono in sé una waw, cioè l’uomo, inteso nella sua struttura vitale, nella sua colonna vertebrale, che lo mantiene in posizione eretta, che lo fa salire verso il cielo, verso il contatto col suo Dio e Creatore. Dunque, dentro le stelle, appaiono due mani, caf e caf, che stringono in sé, con amore, l’uomo: sono le mani di Dio, che mai cessano di sostenerci, solo che noi ci affidiamo ad esse. Infine compare la lettera bet, che è la casa. Le stelle ci parlano, allora, del nostro viaggio verso casa, del nostro continuo migrare e ritornare là, da dove siamo venuti, fin dal giorno della nostra creazione, ma già fin da sempre.

(adattato da  www.qumran2.net)

“Dio”: cosa suscita in noi questa parola?

Cari ragazzi di terza, incomincio subito con una provocazione:
Cosa suscita in voi la parola Dio?
Quali certezze, dubbi, emozioni?

Leggiamo insieme da Sri Ramakrishna, Il libro degli esempi, Gribaudi Editore:

“Quante discussioni si sono fatte e si fanno ancora su Dio. Tu che ne pensi?”,
chiese un giorno un discepolo al grande maestro.
“Vedi quell’ape?”, rispose il maestro. “Senti il suo ronzio? Esso cessa quando
l’ape ha trovato il fiore e ne succhia il nettare.
Vedi quest’anfora? Ora vi verso dell’acqua. Ne senti il glu-glu? Cesserà
quando l’anfora sarà colma.
Ed ora osserva questo biscotto che pongo crudo nell’olio bollente. Senti come
frigge e che rumore fa? Quando sarà ben cotto tacerà.
Così è degli uomini. Fino a quando discutono e fanno del gran rumore su Dio, è
perché non l’hanno ancora trovato.
Chi invece l’ha trovato tace e, nel silenzio, adora ed agisce”.

Vi propongo la testimonianza di Fabrice Hadjadj, che da ateo si è convertito al cristianesimo.

«Prima della mia conversione, devo confessarlo, odiavo questa parola. Quando qualcuno diceva “Dio”, mi sembrava che mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte.
Era un abracadabra, una formula magica e mi verrebbe da dire addirittura una “soluzione finale”, con tutto ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione del genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia. La mia conversione consistette dapprima in una conversione di vocabolario.
All’epoca del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola “Dio” non avesse nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura un modo per evitarlo.
Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza nel lessico, sforzandomi di svicolare così: negazione della morte, volontà di potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione nevrotica del “papà/ mamma, aiuto!”…
Cos’è accaduto oggi? Sono stato corretto riguardo a tale controsenso. Questa parola non suona più ai miei orecchi come un “tappabuchi”, ma come un “apri-abisso”. È probabile che alcuni la usino come “tappabuchi” (credenti o meno, d’altronde). Non la capiscono affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la musica. Perché il significante “Dio” non discende da un desiderio di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di ciò che mi supera»

(da Avvenire del 3.05.13)

Credere

Pensate alla vita come un viaggio. Pensate al suo inizio e alla sua fine.
La morte è la fine di questo viaggio? O questo viaggio, iniziato con la nascita, ha “un fine”?
I cristiani, come molti fedeli di altre religioni, credono che la morte non sia la fine di tutto, e quello che accade dopo sia legato a quanto compiuto in vita.
Non approfondisco l’argomento, ma voglio proporvi un dialogo immaginario, attraverso questa storia di Guru PV Zen.

Nel ventre di una donna incinta si trovavano due bebè.

Uno di loro chiese all’altro:
– Tu credi nella vita dopo il parto?
– Certo. Qualcosa deve esserci dopo il parto. Forse siamo qui per prepararci per quello che saremo più tardi.
– Sciocchezze! Non c’è una vita dopo il parto. Come sarebbe quella vita?
 – Non lo so, ma sicuramente… ci sarà più luce che qua. Magari cammineremo con le nostre gambe e ci ciberemo dalla bocca.
– Ma è assurdo! Camminare è impossibile. E mangiare dalla bocca? Ridicolo! Il cordone ombelicale è la via d’alimentazione … Ti dico una cosa: la vita dopo il parto è da escludere. Il cordone ombelicale è troppo corto.
– Invece io credo che debba esserci qualcosa. E forse sarà diverso da quello cui siamo abituati ad avere qui.
– Però nessuno è tornato dall’aldilà, dopo il parto. Il parto è la fine della vita. E in fin dei conti, la vita non è altro che un’angosciante esistenza nel buio che ci porta al nulla.
– Beh, io non so esattamente come sarà dopo il parto, ma sicuramente vedremmo la mamma e lei si prenderà cura di noi.
– Mamma? Tu credi nella mamma? E dove credi che sia lei ora?

Dove?
– Tutta in torno a noi! E’ in lei e grazie a lei che viviamo. Senza di lei tutto questo mondo non esisterebbe.
– Eppure io non ci credo! Non ho mai visto la mamma, per cui, è logico che non esista.
– Ok, ma a volte, quando siamo in silenzio, si riesce a sentirla o percepire come accarezza il nostro mondo. Sai? … Io penso che ci sia una vita reale che ci aspetta e che ora soltanto stiamo preparandoci per essa …
– Sarà ma io mi fido poco o nulla di quello che non vedo…