Bambini e diritti nell’era della Rete

Della Convenzione sui diritti dell’infanzia abbiamo già avuto modo di parlare. Cinquantaquattro sono gli articoli che la compongono e 194 sono gli Stati che l’hanno sottoscritta. Tra i vari diritti elencati ci sono quello ad avere un nome, a essere protetti, curati e istruiti, a giocare, ma anche a esprimere le proprie idee e a conoscere i propri diritti. 
Quando il documento fu approvato era il 20 novembre 1989 e Internet non era ancora stato inventato. Per questo la Carta va aggiornata. L’Onu ha allora chiesto a 709 bambini provenienti da 28 Paesi, ma anche ad alcuni esperti, quali punti andrebbero inseriti. 
Con l’aiuto di Popotus, l’inserto di Avvenire (13/04/2021) per i giovani lettori, vi elenco quanto è emerso. 
Tutti uguali, anche nel digitale 
La possibilità di accedere a internet è diventata molto importante: negli ultimi mesi grazie alla Rete è stato possibile continuare a fare lezione, anche quando le scuole sono state chiuse, o vedere i nonni e gli amici che non potevamo incontrarci di persona a causa del Covid. Un diritto, questo, che dev’essere garantito a tutti, non solo a chi è ricco ed esperto. Per questo tutti i bambini, anche quelli che vivono in montagna o in posti lontani dalle città, devono potersi collegare senza pagare un prezzo esagerato e devono possedere gli strumenti per farlo. A volte però avere un computer o un tablet non basta, bisogna anche saperli usare: i più piccoli devono poter avere un adulto vicino che li aiuta non solo a entrare in Rete ma anche a muoversi in un ambiente che, a volte, può essere difficile e pericoloso. 
Agli sconosciuti bisogna dire no 
Anche stando a casa davanti al computer ci si può fare male. Si possono incontrare i bulli, che quando non hanno di fronte nessuno in carne e ossa diventano ancora più bulli: ma gli insulti in Rete non fanno meno male, anzi. Ci si può imbattere anche in adulti che chiedono delle foto, che non bisogna mai inviare (e se succede è necessario avvisare subito i genitori o gli insegnanti), o in altri che propongono di entrare in gruppi che fanno giochi pericolosi, a causa dei quali alcuni bambini sono morti, o che vorrebbero arruolare la guerra (questo non succede in Italia ma in altri Paesi purtroppo sì). La Convenzione dice che bisogna sempre tener conto dell’interesse superiore del bambino, che è non correre rischi e crescere sereno. Anche stare troppe ore davanti a uno schermo non fa bene: meglio parlare, leggere e giocare. 
Navigare online solo in sicurezza 
Le opportunità che offre internet anche ai bambini sono davvero tante: si possono conoscere cose nuove, diventare capaci di farne altre, entrare in contatto con persone che vivono dall’altra parte del mondo, scoprire abilità che non si credeva di avere. Pensate, per esempio, a chi non ha la possibilità di viaggiare o abita lontano da un museo o da una biblioteca o a causa di una malattia deve trascorrere un periodo in ospedale: grazie alla Rete non è costretto a restare isolato e a smettere di imparare. L’importante è sapere come muoversi: occorre conoscere la strada, le regole per spostarsi, il tempo previsto. È un compito che spetta soprattutto agli adulti, chiamati a guidarvi e a proteggervi: anche per molti di loro il digitale è un mondo poco conosciuto e hanno bisogno di essere formati. 
Sempre protetti, perfino da se stessi 
Ci sono bambini che hanno bisogno di una protezione speciale perché corrono più rischi: si tratta dei bambini con disabilità, ma anche di quelli che sono scappati da Paesi in guerra, che sono stati abbandonati o separati dalle loro famiglie, che sono perseguitati per la loro religione. Un telefono o un tablet possono aiutarli a comunicare, a trovare informazioni che possono salvare loro la vita: devono perciò essere accessibili e semplici da usare. Tutti gli Stati devono avere leggi per proteggere i più fragili, per evitare che vengano presi in giro, che venga fatto loro del male o che arrivino in posti pericolosi: per questo bisognerebbe riuscire a verificare la vera età di chi gira in Rete. Molti bambini si fingono più grandi per potersi iscrivere ad alcuni social: così facendo frequentano un ambiente che non è adatto a loro. 
Il bello della partecipazione 
Far sentire la propria voce: forse è la cosa più bella che il digitale permette di fare. L’articolo 12 della Convenzione dice che i bambini hanno diritto a esprimere la loro opinione e a essere ascoltati. Spesso non è così facile far sapere ciò che si pensa a chi deve prendere le decisioni. Quest’ultimo anno è stato molto difficile: a volte è sembrava che i bambini fossero scomparsi. I più piccoli sono rimasti senza voce, invisibili. Grazie a internet anche il pensiero dei bambini può viaggiare veloce e arrivare praticamente ovunque: gli adulti dovrebbero creare piattaforme adatte, sistemi per facilitare la partecipazione dei bambini, e abituarsi a chiedere il loro parere un po’ su tutto, come ha fatto l’Onu quando ha deciso di estendere anche al mondo digitale i diritti contenuti in questa Carta pensata per voi più di 30 anni fa.




Alle radici: il Papa a Ur

Avrete sicuramente sentito parlare del viaggio del Santo Padre in Iraq (5-8 marzo 2021). 
Un viaggio difficile perché ha riguardato una terra martoriata dalle guerre, il terrorismo, le divisione; un viaggio difficile per la pandemia. Il Papa lo ha fortemente voluto per far sentire la vicinanza ai fratelli cristiani che vivono lì, tra mille difficoltà, e per rivolgere un appello a tutti i credenti per l’impegno comune al dialogo e alla pace. 
Lì tutto è cominciato: in quella terra Abramo ha udito la voce del Signore. Da lì vengono i credenti delle tre religioni monoteiste.

Vi riporto alcuni stralci del suo discorso a Ur: 

Cari fratelli e sorelle, questo luogo benedetto ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni. Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio. Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra. 
1. Guardiamo il cielo. Contemplando dopo millenni lo stesso cielo, appaiono le medesime stelle. Esse illuminano le notti più scure perché brillano insieme. Il cielo ci dona così un messaggio di unità: l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello. Ma se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo. Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo. Tutti ne abbiamo bisogno, perché non bastiamo a noi stessi. L’uomo non è onnipotente, da solo non ce la può fare. E se estromette Dio, finisce per adorare le cose terrene. Ma i beni del mondo, che a tanti fanno scordare Dio e gli altri, non sono il motivo del nostro viaggio sulla Terra. Alziamo gli occhi al Cielo per elevarci dalle bassezze della vanità; serviamo Dio, per uscire dalla schiavitù dell’io, perché Dio ci spinge ad amare. 
Ecco la vera religiosità: adorare Dio e amare il prossimo. Nel mondo d’oggi, che spesso dimentica l’Altissimo o ne offre un’immagine distorta, i credenti sono chiamati a testimoniare la sua bontà, a mostrare la sua paternità mediante la loro fraternità. Da questo luogo sorgivo di fede, dalla terra del nostro padre Abramo, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti. Non permettiamo che la luce del Cielo sia coperta dalle nuvole dell’odio! […] 
Il Cielo non si è stancato della Terra: Dio ama ogni popolo, ogni sua figlia e ogni suo figlio! Non stanchiamoci mai di guardare il cielo, di guardare queste stelle, le stesse che, a suo tempo, guardò il nostro padre Abramo.
2. Camminiamo sulla terra. Gli occhi al cielo non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra, a intraprendere un viaggio che, attraverso la sua discendenza, avrebbe toccato ogni secolo e latitudine. Ma tutto cominciò da qui, dal Signore che “lo fece uscire da Ur” (cfr Gen 15,7). Il suo fu dunque un cammino in uscita, che comportò sacrifici: dovette lasciare terra, casa e parentela. Ma, rinunciando alla sua famiglia, divenne padre di una famiglia di popoli. Anche a noi succede qualcosa di simile: nel cammino, siamo chiamati a lasciare quei legami e attaccamenti che, chiudendoci nei nostri gruppi, ci impediscono di accogliere l’amore sconfinato di Dio e di vedere negli altri dei fratelli. Sì, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. La pandemia ci ha fatto comprendere che «nessuno si salva da solo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 54). […] 

La via che il Cielo indica al nostro cammino è un’altra, è la via della pace. Essa chiede, soprattutto nella tempesta, di remare insieme dalla stessa parte. È indegno che, mentre siamo tutti provati dalla crisi pandemica, e specialmente qui dove i conflitti hanno causato tanta miseria, qualcuno pensi avidamente ai propri affari. Non ci sarà pace senza condivisione e accoglienza, senza una giustizia che assicuri equità e promozione per tutti, a cominciare dai più deboli. Non ci sarà pace senza popoli che tendono la mano ad altri popoli. Non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi. Non ci sarà pace finché le alleanze saranno contro qualcuno, perché le alleanze degli uni contro gli altri aumentano solo le divisioni. La pace non chiede vincitori né vinti, ma fratelli e sorelle che, nonostante le incomprensioni e le ferite del passato, camminino dal conflitto all’unità.[…] 
Il padre Abramo, egli che seppe sperare contro ogni speranza (cfr Rm 4,18) ci incoraggia. Nella storia abbiamo spesso inseguito mete troppo terrene e abbiamo camminato ognuno per conto proprio, ma con l’aiuto di Dio possiamo cambiare in meglio. Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità! Sta a noi mettere in luce le losche manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l’agio sfrenato di pochi. Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti! Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa.[…] 
Noi, fratelli e sorelle di diverse religioni, ci siamo trovati qui, a casa, e da qui, insieme, vogliamo impegnarci perché si realizzi il sogno di Dio: che la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra.

 

L’acqua che indossiamo

Quando portai le classi all’expo a Milano nel 2015, ricordo che rimasi colpita dall’inquinamento che producono gli allevamenti di bestiame. Insomma, il nostro regime alimentare, fatto di bistecche e hamburger, contribuisce non solo ad impoverire la terra (di foreste, ad esempio) ma anche ad inquinarla con le emissioni di CO2. 
L’altro giorno su Popotus, l’inserto del quotidiano Avvenire (del 23 febbraio), leggo che anche le magliette e i jeans che indossiamo contribuiscono ad impoverire il nostro pianeta. 
Senza fare terrorismo (perché già il periodo che stiamo vivendo non è granché), credo però che sia bene conoscere anche questi aspetti. Vi lascio l’articolo, su cui avremo modo di confrontarci. 

Se andate su Google Maps e cercate il Lago d’Aral, troverete una modesta distesa d’acqua sulla destra del Mar Caspio, tra il Kazakistan e l’Uzbekistan. Fino a circa 60 anni fa questo lago era quattro volte più grande. Il motivo del suo prosciugamento è legato soprattutto alla coltivazione del cotone (l’Uzbekistan è uno dei maggiori produttori al mondo) che richiede enormi quantità d’acqua. E siccome la zona è diventata più arida anche a causa del surriscaldamento climatico, negli anni il lago è diventato un laghetto. 
Il cotone serve all’industria tessile, il settore maggiormente responsabile del consumo di acqua dopo l’agricoltura. Per fare una sola maglietta di cotone servono 2.700 litri d’acqua e per un paio di jeans, che devono essere immersi più volte nelle vasche per i tanti cicli di tintura, ne occorrono dagli 8.000 ai 10.000. 
Quando compriamo una maglietta o un paio di pantaloni, dovremmo ricordarci dell’impatto che il nostro gesto può avere sull’ambiente, in particolare se questo prodotto non è realizzato con tecnologie sostenibili o non ha una filiera controllata che possa certificare processi produttivi rispettosi del lavoro e dell’ambiente. Ma soprattutto dovremmo tenerlo presente quando buttiamo via qualcosa che non ci piace più o che è passato di moda, oppure scartiamo un capo di abbigliamento che si è rovinato in fretta perché di bassissima qualità. 
Secondo la Fao, l’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, negli ultimi 20 anni le riserve di acqua dolce si sono ridotte di un quinto, in gran parte a causa di spreco nelle coltivazioni agricole in Paesi dove l’uso dell’acqua è poco controllato o viene regalata per favorire grandi imprese. 
Ma anche il settore tessile preoccupa. Ogni anno, per fare un esempio, vengono prodotti due miliardi di paia di jeans, e il consumo mondiale di indumenti è previsto in aumento del 60% entro il 2030. Insomma, l’abbigliamento rischia di prosciugare le risorse idriche del pianeta. Con gravi danni per le popolazioni più povere. 
Per fortuna, grazie alla presa di coscienza del problema da parte dei consumatori, l’industria tessile sta trovando modi di produrre più sostenibili. Una multinazionale chimica svizzera di recente ha annunciato un sistema per fare i jeans con il 90% di acqua in meno. 
L’importante è che le persone continuino a essere attente e a fare la loro parte avendo stili di vita e di consumo responsabili.








Se Alexéi per studiare si arrampica su un albero

L’altro giorno, durante i consigli di classe, alcuni genitori facevano notare che tenere le finestre aperte in aula avrebbe forse salvato i loro figli dal covid, ma non dalla bronchite. Purtroppo le aule scolastiche non hanno sistemi di filtraggio dell’aria e stare in 25, 26 e più in un’aula non è il massimo. E’ anche vero che questa epidemia sta mettendo a dura prova i nervi di tutti, però si dovrebbe cercare un po’ di equilibrio, soprattutto se pensiamo a chi è messo in condizioni peggiori di noi. Ho letto su Avvenire di qualche giorno fa la storia di un ragazzo che, per seguire le lezioni non solo rischia la bronchite, ma anche di rompersi l’osso del collo. 
Da Avvenire del 26/11/2020, articolo di LUCIA CAPUZZI 

Il tragitto dalla casa all’aula è di 308 metri. Una distanza minima in apparenza. Se non fosse che gli ultimi otto metri sono da percorrere in verticale. Tanta è l’altezza dell’albero di betulla che, ogni giorno, Alexéi Dudoladov deve scalare con il cellulare in tasca per scaricare i materiali delle lezioni online e sperare di connettersi su zoom, fin quando non cade la linea. 
Con la facoltà di Ingegneria meccanica navale chiusa dalla fine di ottobre – come le altre – a causa del Covid, il ventunenne non ha altro modo per tenersi al passo con il programma. Nel suo villaggio, Stankevichi – un pugno di case dove risiede una cinquantina di abitanti, nel cuore della steppa siberiana –, Internet va a singhiozzo.
Alexéi lo ha fatto più volte presente agli insegnanti, ma questi ultimi pensavano esagerasse. Appena duecento chilometri separano la comunità da Omsk, dove si trova l’Istituto del trasporto acquatico che frequenta. Ma la “distanza digitale” tra i due punti è siderale. I russi che vivono in aree rurali hanno meno di un decimo di possibilità di accesso alla rete rispetto a quanti abitano nelle città. In zone remote e povere come la Siberia, la percentuale si riduce ulteriormente e in modo drastico. 
Per incrementare il segnale, sarebbe sufficiente un amplificatore portatile. Il suo costo – l’equivalente di 88 euro – corrisponde, però, a due terzi del salario minimo. Una somma inarrivabile per la famiglia Dudoladov. Alexéi, però, non si è dato per vinto. Era arrivato da poco a Omsk quando ha dovuto fare ritorno al villaggio per la chiusura dell’ateneo. Da ottobre, la Russia è stata sferzata dalla seconda ondata della pandemia. […] Per arginare il contagio, le autorità regionali hanno chiuso le aule. Le lezioni sono proseguite sul Web. 
Per non perdersele, Alexéi ha cercato l’unico punto in cui riesce a prendere il segnale: la cima della betulla. Così, nonostante la temperatura ben al di sotto dello zero, percorre i 300 metri fino all’albero, poi si arrampica fra i suoi rami, connette il telefono e scarica il più possibile. Non solo. Il ragazzo ha anche deciso di filmare la scena e pubblicarla – sempre dall’alto dell’albero – su TikTok e Instagram, in modo da denunciare l’isolamento in cui si trovano molte località siberiane. In breve, i video sono stati visti da oltre 2,5 milioni di utenti. 
La Russia e il resto del mondo hanno conosciuto la storia di Alexéi. Perfino il governatore di Omsk, Alexander Burkov, si è occupato della questione, promettendo di risolvere il problema senza specificare, però, come e quando. Al momento, il giovane è solo riuscito ad ottenere un programma accademico personalizzato. Non è, però, soddisfatto. «Non è un problema solo mio. Per quanto tempo ancora i ragazzi dei villaggi dovranno continuare a salire sui tetti o sugli alberi per poter studiare? ». Cartina di tornasole di molti nodi sociali irrisolti, il Covid ha acceso i riflettori sugli “isolati digitali”. Il 53 per cento della popolazione del globo è connessa a Internet. La media, però, si basa su un mix di due estremi. Nel Nord del pianeta, gli esclusi dalla rete sono meno del 15 per cento. In Africa subsahariana sono oltre l’80 per cento. In America Latina sfiora il 60 per cento. Non a caso, in queste regioni è la radio la principale fonte di informazione. Ed è stato anche lo strumento più impiegato per garantire qualche forma di istruzione a distanza. 
Uno studio dell’Unicef, sottolineava l’esclusione dal circuito scolastico di uno studente su tre del pianeta a causa della mancanza di connessione: almeno 463 milioni di bambini su un totale di 1,5 miliardi. Tre quarti di loro vive in zone rurali. 
«Si tratta di un’emergenza educativa globale, le cui ripercussioni sulle società e le economie potrebbero pesare per decenni», ha spiegato Henrietta Fore, direttore esecutivo di Unicef. Gli ostacoli tecnici non sono, però, gli unici. 
La pandemia rischia di tagliare definitivamente fuori dalle classi quasi il 2 per cento della popolazione scolastica mondiale, condannata al lavoro schiavo o ai matrimoni forzati. 

Un cuore nuovo per salvare la Terra

La Bibbia ci insegna che il mondo non è nato dal caos o dal caso, ma da una decisione di Dio che lo ha chiamato e sempre lo chiama all’esistenza, per amore. L’universo è bello e buono, e contemplarlo ci permette di intravedere la bellezza e la bontà infinite del suo Autore. Ogni creatura, anche la più effimera, è oggetto della tenerezza del Padre, che le dona un posto nel mondo. Il cristiano non può che rispettare l’opera che il Padre gli ha affidato, come un giardino da coltivare, da proteggere, da far crescere secondo le sue potenzialità. E se l’uomo ha il diritto di fare uso della natura per i propri fini, non può in alcun modo ritenersi suo proprietario o despota, ma solamente l’amministratore che dovrà rendere conto della sua gestione. In questo giardino che Dio ci offre, gli esseri umani sono chiamati a vivere in armonia nella giustizia, nella pace e nella fraternità, ideale evangelico proposto da Gesù (cfr LS, 82). E quando si considera la natura unicamente come oggetto di profitto e di interessi – una visione che consolida l’arbitrio del più forte – allora l’armonia si rompe e si verificano gravi disuguaglianze, ingiustizie e sofferenze. San Giovanni Paolo II affermava: «Non solo la terra è stata data da Dio all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato» (Enc. Centesimus annus, 38). Tutto dunque è connesso. Sono la stessa indifferenza, lo stesso egoismo, la stessa cupidigia, lo stesso orgoglio, la stessa pretesa di essere il padrone e il despota del mondo che portano gli esseri umani, da una parte, a distruggere le specie e saccheggiare le risorse naturali, dall’altra, a sfruttare la miseria, abusare del lavoro delle donne e dei bambini, rovesciare le leggi della cellula familiare, non rispettare più il diritto alla vita umana dal concepimento fino al termine naturale. Pertanto, «se la crisi ecologica è un emergere o una manifestazione esterna della crisi etica, culturale e spirituale della modernità, non possiamo illuderci di risanare la nostra relazione con la natura e l’ambiente senza risanare tutte le relazioni umane fondamentali» (LS, 119). Quindi non ci sarà una nuova relazione con la natura senza un essere umano nuovo, ed è guarendo il cuore dell’uomo che si può sperare di guarire il mondo dai suoi disordini sia sociali sia ambientali.
(Papa Francesco, 3 settembre 2020, incontrando alcuni laici che collaborano con i vescovi francesi sulla Laudato si’)

 

Juniò

Non aveva mai pianto Juniò.
Quando fu costretta a separarsi da lui, la mamma gli disse che avrebbe dovuto essere forte. Aveva sopportato di non avere più un padre. Adesso doveva farsi forte perché la mamma e la gemellina se ne andavano e le loro vite si sarebbero dovute dividere. Separarsi per provare a salvarsi. Ma Juniò è stato forte. E lo era ogni volta che doveva mettersi in posa per farsi scattare una foto e inviarla alla mamma nel frattempo giunta in Italia su un barcone. Juniò sorrideva e la rassicurava. A 7 anni doveva dimostrare di saper mantenere le promesse. Che non si sarebbe fatto vincere dal più straziante degli abbandoni.
Pensate, sette anni. L’età dei giochi, della mamma che praticamente ti fa tutto, l’età anche dei capricci. Juniò ha dovuto invece dimostrare di essere grande ed è ritornato bambino quando ha potuto riabbracciare la mamma e la sorella.
Vi propongo quanto scrive Nello Scavo su AVVENIRE dell/8 luglio 2020
La mamma non ha mai perso la speranza. Diceva di conoscere quel suo ragazzo, che seppur bambino Juniò non è tipo da darla vinta ai cattivi. Lì a Zawyah, le autorità internazionali stavano facendo il possibile per riuscire a tirarlo fuori. Unhcr-Acnur, Oim, erano finalmente riuscite a rintracciarlo in un casolare non lontano dal centro di prigionia ufficiale, quello del guardacoste-trafficante Bija e di suo cugino Osama, il padrone della vita e della morte dei migranti internati. Nel pieno degli scontri armati, con violente faide interne alle milizie, Juniò era scomparso insieme alla donna che lo accudiva e con la neonata di lei.
Settimane dopo dalla Sea Watch una migrante è riuscita a mettersi in contatto con la mamma di Juniò: «Siamo salvi, dicono che ci porteranno in Italia ». Così, grazie al team di Sea Watch, è stato possibile mettere a confronto le foto del bambino a bordo con quelle che la mamma di Juniò aveva fatto avere ad Avvenire: nessun dubbio che si trattasse di lui. A quel punto grazie al lavoro incessante della Croce rossa italiana, che ha preso in carico Juniò sulla nave quarantena Moby Zazà, e l’impegno delle autorità territoriali in Sicilia, è stato possibile stabilire il riconoscimento formale e avviare il ricongiungimento mentre a Capo Rizzuto il direttore del centro di permanenza, Mario Siniscalco, insieme al personale non ha mai lasciato da sola la donna con la figlia avviando tutte le procedure per riunire la famiglia.
Entrambi i bambini sono già stati iscritti a una scuola elementare di Roma, e per loro si profila un futuro finalmente più sereno. La scrittrice Caterina Bonvicini, che si trovava a bordo della Ocean Viking quando la mamma e la sorellina del bambino ivoriano furono salvate, si farà carico con il marito, il giornalista Riccardo Chiaberge, di accogliere e accompagnare la famiglia nel cammino d’inserimento in Italia.
Una storia a lieto fine che ha rischiato molte volte in queste settimane di avere un epilogo drammatico: prima l’abbandono forzato in Libia, poi l’attraversamento del Mediterraneo, con il rischio di venire catturati da una motovedetta libica e portati stavolta nel campo di prigionia di Zawyah.
Da gennaio di quest’anno sono almeno 1.500 i migranti intercettati in mare, respinti verso la Libia e di cui si sono perse le tracce. Secondo gli ispettori delle Nazioni Unite anche i bambini non di rado sono vittime di soprusi e vessazioni. Juniò è salvo, la sua famiglia è tornata insieme. Ma per centinaia di Juniò, in Libia, le storie non hanno alcun finale.

Il sonno della ragione e del cuore

Ho letto che il 15,6% degli italiani nega la Shoa. Per carità – dirà qualcuno – ognuno è libero di pensarla come vuole. Mica tanto – aggiungo io. Negare, in questo caso, è permettere il ripetersi del male.
Pensate che nel 2004 la percentuale dei negazionisti era del 2,7%. Se nel giro di quindici anni circa i dati hanno avuto un progresso cosi esponenziale (siamo sul 2,7 alla terza), che cosa potrà mai accadere tra 20 anni? Certo, è più semplice negare che prendere atto di cosa l’uomo può essere in grado di fare quando rinuncia a pensare con la mente e il cuore. Sì, non mi sono sbagliata a scrivere…. C’è un rapporto tra mente e cuore, tra pensiero razionale e sentimento, che non va scisso. Se lo facciamo, finiamo per giustificare ciò che umanamente è ingiustificabile.
In un certo senso, il sonno della ragione e – aggiungo io – del cuore genera mostri.
Quando parlo di cuore intendo qualcosa che va al di là della semplice emozione. Perché mentre le emozioni arrivano e non riusciamo ad esserne “padroni”, se non fino ad un certo punto, i sentimenti, ed è a loro che mi riferisco quando parlo di cuore, nascono quando le emozioni acquistano valore. Per acquistare valore è necessario dar loro un senso, una ragione. Per dirla in termini più facili, l’innamoramento è qualcosa che mi prende e mi travolge, ma l’amore è una scelta di cuore e ragione. Io scelgo di amare, per ragioni che vanno al di là dell’attrazione e dell’emozione. Il prendersi cura e la fedeltà non sono frutto dell’emozione, ma della responsabilità, che non è irrazionalità o semplice emozione. Ecco perché l’amore non può finire se abbiamo permesso l’evoluzione dell’ emozione.
Viviamo in un mondo che non rende facile questa evoluzione delle emozioni, perché siamo bombardati emotivamente e poco abituati a riflettere e a dare valore. La superficialità disconnette cuore e ragione. Questo mi fa paura.
Ho trovato una frase che viene attribuita alla grande scienziata Rita Levi Montalcini. Ve la condivido e vi auguro di rientrare tra gli “Unici”.


Ogni guerra è un fratricidio

Alcuni spunti di riflessione dal Messaggio del Papa per la 53ª Giornata mondiale della pace, che sarà celebrata il prossimo 1° gennaio.
Titolo del testo è “La pace come cammino di speranza: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica”.

La pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l’umanità.

Ogni guerra, in realtà, si rivela un fratricidio che distrugge lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana.

La guerra, lo sappiamo, comincia spesso con l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio. Nasce nel cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla superbia, dall’odio che induce a distruggere, a rinchiudere l’altro in un’immagine negativa, ad escluderlo e cancellarlo.

La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani». ( Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki, Parco “Atomic bomb hypocenter”, 24 novembre 2019).

Ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento sulla propria condizione. Sfiducia e paura aumentano la fragilità dei rapporti e il rischio di violenza, in un circolo vizioso che non potrà mai condurre a una relazione di pace. In questo senso, anche la dissuasione nucleare non può che creare una sicurezza illusoria.
Perciò, non possiamo pretendere di mantenere la stabilità nel mondo attraverso la paura dell’annientamento, in un equilibrio quanto mai instabile, sospeso sull’orlo del baratro nucleare e chiuso all’interno dei muri dell’indifferenza, dove si prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi dello scarto dell’uomo e del creato, invece di custodirci gli uni gli altri. ( Cfr. Omelia a Lampedusa, 8 luglio 2013).

Come, allora, costruire un cammino di pace e di riconoscimento reciproco? Come rompere la logica morbosa della minaccia e della paura? Come spezzare la dinamica di diffidenza attualmente prevalente? Dobbiamo perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca. Il desiderio di pace è profondamente inscritto nel cuore dell’uomo e non dobbiamo rassegnarci a nulla che sia meno di questo.

Aprire e tracciare un cammino di pace è una sfida, tanto più complessa in quanto gli interessi in gioco, nei rapporti tra persone, comunità e nazioni, sono molteplici e contraddittori. Occorre, innanzitutto, fare appello alla coscienza morale e alla volontà personale e politica. La pace, in effetti, si attinge nel profondo del cuore umano e la volontà politica va sempre rinvigorita, per aprire nuovi processi che riconcilino e uniscano persone e comunità.

Il mondo non ha bisogno di parole vuote, ma di testimoni convinti, di artigiani della pace aperti al dialogo senza esclusioni né manipolazioni. Infatti, non si può giungere veramente alla pace se non quando vi sia un convinto dialogo di uomini e donne che cercano la verità al di là delle ideologie e delle opinioni diverse. La pace è «un edificio da costruirsi continuamente » (Conc.Ecum.Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 78), un cammino che facciamo insieme cercando sempre il bene comune e impegnandoci a mantenere la parola data e a rispettare il diritto. Nell’ascolto reciproco possono crescere anche la conoscenza e la stima dell’altro, fino al punto di riconoscere nel nemico il volto di un fratello.

Il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta. In uno Stato di diritto, la democrazia può essere un paradigma significativo di questo processo, se è basata sulla giustizia e sull’impegno a salvaguardare i diritti di ciascuno, specie se debole o emarginato, nella continua ricerca della verità. (Cfr. Benedetto XVI, Discorso ai dirigenti delle Associazioni cristiane lavoratori italiani, 27 gennaio 2006).

Come sottolineava san Paolo VI, «la duplice aspirazione all’uguaglianza e alla partecipazione è diretta a promuovere un tipo di società democratica […]. Ciò sottintende l’importanza dell’educazione alla vita associata, dove, oltre l’informazione sui diritti di ciascuno, sia messo in luce il loro necessario correlativo: il riconoscimento dei doveri nei confronti degli altri. Il significato e la pratica del dovere sono condizionati dal dominio di sé, come pure l’accettazione delle responsabilità e dei limiti posti all’esercizio della libertà dell’individuo o del gruppo». (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 24).

Al contrario, la frattura tra i membri di una società, l’aumento delle disuguaglianze sociali e il rifiuto di usare gli strumenti per uno sviluppo umano integrale mettono in pericolo il perseguimento del bene comune. Invece il lavoro paziente basato sulla forza della parola e della verità può risvegliare nelle persone la capacità di compassione e di solidarietà creativa.

Nella nostra esperienza cristiana, noi facciamo costantemente memoria di Cristo, che ha donato la sua vita per la nostra riconciliazione (cfr Rm 5,611). La Chiesa partecipa pienamente alla ricerca di un ordine giusto, continuando a servire il bene comune e a nutrire la speranza della pace, attraverso la trasmissione dei valori cristiani, l’insegnamento morale e le opere sociali e di educazione.

La Bibbia, in modo particolare mediante la parola dei profeti, richiama le coscienze e i popoli all’alleanza di Dio con l’umanità. Si tratta di abbandonare il desiderio di dominare gli altri e imparare a guardarci a vicenda come persone, come figli di Dio, come fratelli. L’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé. Solo scegliendo la via del rispetto si potrà rompere la spirale della vendetta e intraprendere il cammino della speranza.

Ci guida il brano del Vangelo che riporta il seguente colloquio tra Pietro e Gesù: «“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» ( Mt18,21- 22). Questo cammino di riconciliazione ci chiama a trovare nel profondo del nostro cuore la forza del perdono e la capacità di riconoscerci come fratelli e sorelle. Imparare a vivere nel perdono accresce la nostra capacità di diventare donne e uomini di pace.