Vivere da disabili non è un gioco

Da Popotus del 12 novembre 2013

«Super Mario Bros. è un celebre videogioco della Nintendo che ha impazzato nelle case degli adolescenti di mezzo Pianeta negli anni Novanta. Sullo schermo un simpatico idraulico, con tanto di tuta e baffoni, procede spedito in un fantasioso regno alla ricerca di una principessa: obiettivo, eliminare funghi impazziti (saltandoci sopra) e sconfiggere un mostro finale.
La stessa sorte tocca a Rosario, un giovane in sedia a rotelle di Oria (Brindisi): che spedito può procedere, sì, per le strade del suo paese, ma tra macchine e camion, visto che i marciapiedi sono inaccessibili, gli scivoli dissestati, le strisce pedonali inesistenti. Di qui l’idea di documentare con un video la sua giornata tipo e trasformarla in una partita del videogame: Rosario, come Super Mario, tenta di districarsi tra parcheggi selvaggi, farmacie e banche senza accesso per la carrozzella, ingorghi e lavori in corso. A ogni ostacolo superato, a sinistra dello schermo il punteggio sale. Ma mentre Rosario guadagna punti e acquista poteri speciali nel gioco, Oria finisce per diventare un mostro nella realtà: un paese incapace di aiutare una persona in difficoltà anche solo con piccole accortezze (cura dell’asfalto, pulizia dei marciapiedi, segnaletica e parcheggi).
Non a caso il videogioco è stato intitolato «Oria, questa è Sparta», ispirandosi al nome dell’antica città greca che non accettava la nascita di bambini imperfetti. E li faceva gettare da una rupe.
«Io vorrei solo la possibilità di poter fare quello che normalmente fa una persona qualsiasi nella propria città», spiega Rosario. Gli verrà data?»

Vi lascio il video.

La sindrome di Down non è una maledizione. Parola di Cristina.

Oggi la Chiesa celebra la 35a Giornata Nazionale per la vita.
Per l’occasione vi lascio la testimonianza di Cristina Acquistapace, consacrata down dell’Ordo Virginum dal 2006.
Tratto da “Cristina: io Down, felice di essermi donata a Dio”, articolo di Laura Badaracchi, pubblicato su Avvenire del 2 febbraio 2013.

Cristina vuole anzitutto ringraziare i suoi genitori: «Non mi hanno segregato in casa o inviato in un istituto ma, al contrario, mi hanno messo in contatto con la gente; in breve tempo mi sono fatta molti amici e quando avevo 16 anni mi sono anche innamorata, imparando cose importanti. Ho potuto andare a trovare mia zia, suora missionaria in Kenya. Un’esperienza che non vorrei cambiare con nessun riconoscimento, ma è impossibile trasmetterla solo attraverso le parole». Ed è durante uno di questi viaggi che ha deciso di consacrarsi a Dio. Nel 2000 la vocazione si alimenta ad Assisi e durante altri pellegrinaggi e ritiri spirituali, da Lourdes alla Terra Santa; dopo il volontariato in Croce Rossa e alla Caritas, ci sono gli incontri nelle scuole o in varie associazioni. La fede ha sempre rappresentato un punto fermo nella vita di Cristina, che racconta: «La sindrome di Down, anche se ha costituito talvolta per me un peso, nel mio modo di pensare non ha mai costituito una maledizione bensì una benedizione, una grazia. Forse è stata una prova per vedere se, nonostante tutto, io possa vivere una vita piena. L’intelligenza di una persona sta nell’accettare i propri limiti e nel mettere a frutto le capacità che si hanno». Perché fare promessa di castità nella chiesa del Sacro Cuore di Sondrio, alla presenza dell’allora vescovo di Como Alessandro Maggiolini, e mettersi a servizio della diocesi? «Anzitutto perché sento di essere stata chiamata e in secondo luogo perché c’è troppa povertà nel mondo: povertà spirituale, soprattutto, e la Chiesa ha bisogno di me, delle mie preghiere, del mio aiuto concreto e disinteressato», sottolinea convinta. E aggiunge: «Il giorno più bello della mia vita è stato il 25 marzo 2006 quando il vescovo mi ha consacrato, ma se non fossi nata il 10 agosto 1972 non avrei mai potuto vivere quel meraviglioso giorno in cui sono diventata a tutti gli effetti sposa di Cristo». In una recente testimonianza, ci ha tenuto a chiarire con forza: «Dio non ha creato la disabilità come cosa che potesse farci male, se mai ha voluto dare a qualcuno la possibilità di comprendere il vero senso e il vero valore della vita attraverso persone molto speciali a cui ha dato il compito di essere luce per il mondo». La quarantenne valtellinese continua a vivere con i suoi genitori; ha problemi alla vista, forti dolori alle gambe che talvolta la fanno optare per la sedia a ruote, ma dichiara: «Sono felice della mia vita e non ho nessun rimpianto. Ho sempre desiderato donare il mio cuore a Dio e agli altri: non me la sentivo di esser felice da sola. E non mi sono mai sentita diversa dagli altri, perché come tutti sogno, spero, desidero, provo dei sentimenti». Insieme alla madre Marilena Sutti gira tutta l’Italia per incontrare giovani, insegnanti, genitori e dire: «La vita è bella, non abbiate paura; superate i pregiudizi».

Ma perchè chiamarli disabili?

Prima di tutto sono persone.
Questo mi viene da dire quando si parla dei disabili. Gli atteggiamenti di fronte alle persone “diverse” vanno dall’indifferenza alla curiosità, dall’indulgenza ad una pietà forzata. Ma perchè non riconoscere la persona? Le persone sono diverse, per natura, cultura, religione. Non siamo tutti uguali e la normalità è un concetto statistico. Niente più di questo. Le difficoltà non vanno ovviamente ignorate ed è compito del legislatore e delle persone di buona volontà offrire gli strumenti e le occasioni perchè ogni persona possa realizzarsi.
Il  sogno di  José Omar era ad esempio diventare direttore d’orchestra, nonostante gli dicessero che non era per lui,  che aveva la sindrome di down. La sua tenacia e l’appoggio dei genitori gli hanno permesso di andare oltre la disabilità.  Ha trovato la Fondazione musicale Simon Bolivar, fondata dal maestro José Antonio Abreu per insegnare a suonare ai ragazzi di strada e aiutarli a stare lontano dalla violenza proprio attraverso la musica, ed è entrato a far parte di una delle duecento orchestre nate da questa Fondazione. La ‘Rinconada’ è l’orchestra in cui José Omar non solo suona nel gruppo, ma ne è anche il direttore. Josè è il primo maestro d’orchestra con la sindrome di Down.
Alcune settimane fa, lui e la Rinconada si sono esibiti in un’importante cerimonia a Caracas, la capitale del Venezuela, con grande successo. “Ogni concerto – ha detto Josè – è un sogno che si realizza. Quando stringo in mano la bacchetta, sono felice”.
E’ proprio vero che l’handicap peggiore è il pregiudizio, che ci impedisce di vedere la dignità che è propria di ogni essere umano.