Il Capodanno islamico

Oggi per i musulmani è Capodanno, perchè è il primo giorno di Muhàrram, cioè il primo mese del calendario islamico, che, diversamente dal nostro, è legato alle fasi lunari. In questo giorno i musulmani sono invitati a meditare e a raccogliersi nella preghiera, perchè il nuovo anno cominci nella gioia e nella pace. Questo è il giorno in cui si commemora l’Egira, cioè la fuga di Maometto dalla Mecca, da cui il mondo musulmano comincia a contare gli anni, per cui questo per loro è l’anno 1431 dall’Egira.
Il 10 di questo mese, che nel nostro calendario corrisponde al 27 dicembre si ricorda l’Ashura. La Ashura deriva da ashara che vuol dire dieci, proprio perchè è un evento religioso che si celebra il dieci del mese islamico di Muharram. Richiama lo Yom Kippur ebraico (celebrato nel decimo giorno del primo mese ebraico di Tishri), dal quale si dice che derivi. Il profeta Maometto avrebbe istituito la Ashura prima dell’avvento del Ramadan e, per differenziarla dalla celebrazione ebraica, l’avrebbe fatta iniziare un giorno prima (gli Ebrei ricordavano, con un solo giorno di digiuno, l’uscita dall’Egitto sotto la guida del profeta Mosé; Maometto avrebbe decretato di avere, come e più dei profeti biblici, diritto al digiuno e, perciò, ne avrebbe decretato due giorni). Questa celebrazione può avere quattro ‘motivi ispiratori’: l’approdo dell’arca di Noè, la nascita del profeta Ibrahim, l’abbandono di Adamo del paradiso terrestre, la costruzione de La Mecca, e altrettante ‘interpretazioni’ celebrative. L’avvento del Ramadan ha reso il digiuno dell’Ashura facoltativo (cioè ‘consigliato’) e la sua celebrazione meno ‘severa’, ma solo tra i Sunniti, perché tra gli Sciiti, invece, essa dura per 40 giorni e commemora il martirio dell’imam Hussein (Al Husayn ibn ‘Alī), nipote di Maometto, insieme a quello di 72 suoi fedelissimi, avvenuto a Karbalā, in Iraq, per mano del califfo Omayyade Yazid I. Questo episodio viene vissuto come un vero e proprio evento luttuoso, con tanto di autoflagellazioni sanguinose ed episodi collettivi autolesivi alquanto impressionanti. La tomba dell’Imam e dei suoi partigiani ha trasformato la città di Karbala, in Iraq, nel principale centro delle celebrazioni sciite: in ricordo della data della strage centinaia di migliaia di pellegrini  vi si recano ogni anno, a commemorare il lutto e a piangere l’Imam.
Al di fuori del mondo sciita , invece, la festa ha un carattere gioioso, come il nostro capodanno, e vede i bambini molto coinvolti, con la preparazione, apposta per loro, delle speciali “frittelle dell’‘Āshūrā’” e altre ghiottonerie, che essi vanno raccogliendo di casa in casa in modo non dissimile da quanto fanno i bambini nelle festa anglosassone di Halloween.

Preghiera per la pace

Al Creatore della natura e dell’uomo, della verità e della bellezza, levo una preghiera:

Ascolta la mia voce perché è la voce delle vittime di tutte le guerre e della violenza tra gli individui e le nazioni;

Ascolta la mia voce, perché è la voce di tutti i bambini che soffrono e soffriranno ogni qualvolta i popoli ripongono la loro fiducia nelle armi e nella guerra;

Ascolta la mia voce, quando Ti prego di infondere nei cuori di tutti gli esseri umani la saggezza della pace, la forza della giustizia e la gioia dell’amicizia;

Ascolta la mia voce, perché parlo per le moltitudini di ogni Paese e di ogni periodo della storia che non vogliono la guerra e sono pronte a percorrere il cammino della pace;

Ascolta la mia voce e donaci la capacità e la forza per poter sempre rispondere all’odio con l’amore, all’ingiustizia con una completa dedizione alla giustizia, al bisogno con la nostra stessa partecipazione, alla guerra con la pace.

O Dio, ascolta la mia voce e concedi al mondo per sempre la Tua pace.

Preghiera di Giovanni Paolo II in visita al “Peace Memorial” di Hiroshima (Giappone) il 25 febbraio 1981

Il velo islamico


Sull’obbligo di indossare il velo (higab, in arabo) non c’è unicità di vedute nel mon­do islamico.
La discordanza deriva dall’in­terpretazione che si dà ai precetti del Cora­no, fonte primaria della fede e del diritto musulmani, ed esprime solitamente, ma non necessariamente, una contrapposizio­ne tra islam moderato e fondamentalista. Semplificando, da un lato c’è chi sostiene che l’uso del velo non dovrebbe essere mes­so in discussione: il Corano si esprimereb­be esplicitamente in tal senso nelle sure XXIV, 31 e XXXIII, 59. Dall’altro lato c’è chi invece ritiene che lo higab non abbia rnai costituito un dogma.

II velo è simbolo di obbedienza a Dio, di modestia e pudore. Alle donne sarebbe consentito mostrare soltanto il viso, le mani e i piedi considerati non sessualmente provocanti. Ma è anche vero che in alcuni paesi musulmani, come I’Afghanistan, le donne sono nascoste sot­to tuniche che le rivestono completamente dalla testa ai piedi.

Non è facile indicare con certezza quanti siano i veli islamici, diversi per cultura e tra­dizioni anche all’interno dello stesso pae­se.
Questi i più comuni: burqa, chador; ha’ik, higab, jalabiya, niqab.
Il burqa, diffuso in Af­ghanistan, è un velo integrale dai colori ge­neralmente accesi (arancione, verde, az­zurro) che copre completamente la don­na, dalla testa ai piedi, lasciando aperta so­lo una finestrella a rete davanti agli occhi per consentirle di vedere il mondo esterno.
Lo chador è nero e avvolge il corpo completamente, lasciando scoperto l’ovale del viso. È usato soprattutto in Iran, dove è obbligatorio dalla rivoluzione del 1979 gui­data dall’ayatollah Khomeini.
L’ ha’ik è una stoffa tessuta in maniera tradizionale, di la­na (in Marocco) o seta (Algeria), che av­volge il capo e il corpo.
L’ higab è composto da due pezzi: un copricapo che nasconde la testa e un velo che, appoggiato sopra, scende sulle spalle ed è legalo sotto al men­to o appuntato con una spilla. E utilizzato in Egitto, Siria, Giordania e Marocco.
Lo jalabiya è un lungo camice di tela, usato an­che dai più antichi coltivatori del Nord Africa, i fellahin dell’Egitto (coltivatori insediati lungo la valle e il Delta del Nilo).
Il niqab è un velo che copre la testa e il viso della donna lasciando scoperti gli occhi e può essere molto raffinato ed elegante o pesante e nero.

Il villaggio di Nevè Shalom/Wahat al Salam

La parola pace scritta in inglese, ebraico e arabo, costruisce un simbolo che invita a sperare nella soluzione del conflitto tra ebrei e palestinesi. La pace, in questa area del mondo, sembra ancora molto lontana; la guerra, purtroppo, ha radici antiche, nutrite dall’estremismo, l’incomprensione, l’intolleranza.
Se solo gli uomini imparassero a guardarsi negli occhi!
C’è un villaggio, situato su una collina, ad uguale distanza (30 km) da Gerusalemme, da Tel Aviv e dalla cittá palestinese di Ramallah, dove, fin dal 1977, vivono famiglie arabe ed ebree. Il villaggio si chiama Neve Shalom/Wahat al-Salam, e chi vi abita vuole testimoniare che la convivenza tra arabi (non solo musulmani ma anche cristiani) ed ebrei è possibile.
Il nome di questo villaggio deriva da un passo del profeta Isaia (32,18), dove leggiamo: “Il mio popolo abiterá in un’Oasi di Pace” ( Neve Shalom in ebraico, Wahat al-Salam in arabo). Fu il padre domenicano Bruno Hussar, ebreo di origine, cittadino di Israele nel 1966, a dare il nome a questa esperienza di convivenza tra credenti di diversa fede.

Nel villaggio è attiva da oltre quindici anni una Scuola per la pace, molto nota e apprezzata a livello internazionale, che organizza seminari di incontro e di mediazione dei conflitti. La sua attività consiste in laboratori residenziali (della durata di quattro-cinque intense giornate), attraverso i quali sono finora passati più di 25 mila persone tra allievi ( 16-17 anni) dei licei ebraici e arabi di Israele, studenti universitari, insegnanti, leader locali e altre categorie di professionisti.  Il lavoro si svolge in piccoli gruppi binazionali di 14-16 partecipanti, e per ognuno di questi microgruppi vi sono due coordinatori o «facilitatori», di cui uno/a è ebreo/a e l’altro/a è palestinese.
Le difficoltà non mancano; la pace, lo si sa, non è semplice ma…

Fino a che ogni fermento d’odio
non avrà lasciato il mio cuore,
non mi riterrò puro.
Sarò, ai miei occhi,
come se non fossi mai nato.
Rabbi Levi ltzchak, maestro rabbinico


Le suore producono una sit-com

Le Maestre pie dell’Addolorata di Rimini si fanno produttrici di una sit-com per ragazzi.
Ecco quanto dice la superiora, madre Lina Rossi:
” Per essere credibili bisogna anche sapere far ridere. Il nome del nostro istituto sembrerebbe non promettere nulla di ironico o leggero ed è proprio per questo che vogliamo dare un messaggio in controtendenza. Vogliamo stupire… bonariamente!”.
Protagonista della sit-com, realizzata in collaborazione con il centro di produzioni multimediali Nova-T di Torino (dei Frati Cappuccini) è Francesca Draghetti, attrice comica della Premiata Ditta, che interpreta una professoressa che vive con i suoi studenti l’ultima ora dell’ultimo giorno di liceo. La voce narrante è quella di Milena Vukotic, notissima attrice di teatro e la regia è di Paolo Damosso. Mentre gli studenti sono veri: sono i ragazzi del liceo Elisabetta Renzi di Rimini.

Tornare bambini

Quante volte vi sarà capitato di sentirvi dire da noi insegnanti “Non fate i bambini”?
Lo so, a volte siamo pesanti, ma anche voi non scherzate: c’è sempre quello pronto a stuzzicare i compagni, chi fa battute a sproposito, oppure chi vaga nel suo mondo, chi chiacchera in continuazione, e …chi più ne ha, più ne metta.
Non fate i bambini lo diciamo per invitarvi ad essere responsabili del vostro apprendimento, perchè imparare bene è un buon investimento, forse il migliore che possiate fare nella vostra vita. Una buona istruzione ed una buona educazione sono importanti per il vostro futuro.
Non fate i bambini … eppure Gesù dice di tornare bambini, che il Regno dei Cieli è per i bambini. Ma che discorso è?
In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli… E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio accoglie me.” (Mt 18,3-5).
Tornare bambini vuol dire cercare la semplicità della Verità. Niente arrampicamenti sugli specchi, di cui molte volte noi grandi ci facciamo esperti.
Parlo della semplicità del giusto e sbagliato, del vero e del falso, del buono e del cattivo, senza tutte quelle mezze misure che ci allontanano dalla Verità.
Tornare bambini vuol dire confidare più in Dio che nelle strategie umane.
E allora, siate bambini, ma nel senso in cui lo dice Gesù.
Divertitevi, come bambini, a costruire questo puzzle. Un ulteriore spunto di riflessione.

Le opere dell’amore

Le opere dell’amore
sono sempre opere di pace.
Ogni volta che dividerai
il tuo amore con gli altri,
ti accorgerai della pace
che giunge a te e a loro.
Dove c’è pace c’è Dio,
è così che Dio riversa pace
e gioia nei nostri cuori.

(Madre Teresa, Nel cuore del mondo, Rizzoli)

Se vuoi la pace, custodisci il creato

A Copenaghen è in atto la Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici e il Papa nell’Angelus di domenica, ha auspicato che in tale sede si possano individuare azioni rispettose della creazione e promotrici di uno sviluppo solidale, fondato sulla dignità della persona umana ed orientato al bene comune. La salvaguardia del creato richiede l’adozione di stili di vita sobri e responsabili, soprattutto verso i poveri e le generazioni future.
Già nell’enciclica Caritas in veritate, consegnata tra l’altro ai potenti del mondo nel corso dell’ultimo G8 all’Aquila, il Papa ricordava che la natura è un dono di Dio, da «usare responsabilmente» e chiedeva ai Paesi ricchi e ai gruppi di potere di porre fine «all’accaparramento delle risorse» e allo «sfruttamento delle risorse non rinnovabili». Se si intende coltivare il bene della pace – questo è il pensiero del Papa – si deve favorire una rinnovata consapevolezza dell’interdipendenza che lega tra loro tutti gli abitanti della terra. Tale consapevolezza concorrerà a eliminare diverse cause di disastri ecologici e garantirà una tempestiva capacità di risposta quando tali disastri colpiscono popoli e territori. La questione ecologica non deve essere affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila: essa deve tradursi, soprattutto, in una forte motivazione per coltivare la pace.
Anche il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della pace, che si celebrerà il 1 gennaio 2010, sarà dedicato al tema del rispetto del Creato ed avrà come titolo:”Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”.