Il Papa in Marocco

Viaggio lampo quello del Papa in Marocco, ma significativo. Non se ne è parlato molto, ma i miei studenti marocchini ne erano informati. Un altro segno di dialogo rispettoso e sincero di cui questi ragazzi mi parlavano con gioia.
vignetta di Robi Hood (Roberto Benotti)
Vi riporto alcuni passaggi del discorso tenuto dal Papa nell’incontro con il Popolo Marocchino, con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico. Saranno occasione di riflessione e confronto, specialmente con voi, ragazzi delle seconde, che state riflettendo sul valore del dialogo.

«Qui su questa terra, ponte naturale tra l’Africa e l’Europa, desidero ribadire la necessità di unire i nostri sforzi per dare un nuovo impulso alla costruzione di un mondo più solidale, più impegnato nello sforzo onesto, coraggioso e indispensabile di un dialogo rispettoso delle ricchezze e delle specificità di ogni popolo e di ogni persona. Questa è una sfida che tutti siamo chiamati a raccogliere, soprattutto in questo tempo in cui si rischia di fare delle differenze e del misconoscimento reciproco dei motivi di rivalità e disgregazione. È quindi essenziale, per partecipare all’edificazione di una società aperta, plurale e solidale, sviluppare e assumere costantemente e senza cedimenti la cultura del dialogo come strada da percorrere; la collaborazione come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio (cfr Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019)».[…] Pertanto, un dialogo autentico ci invita a non sottovalutare l’importanza del fattore religioso per costruire ponti tra gli uomini e per affrontare con successo le sfide precedentemente evocate. Infatti, nel rispetto delle nostre differenze, la fede in Dio ci porta a riconoscere l’eminente dignità di ogni essere umano, come pure i suoi diritti inalienabili. Noi crediamo che Dio ha creato gli esseri umani uguali in diritti, doveri e dignità e che li ha chiamati a vivere come fratelli e a diffondere i valori del bene, della carità e della pace.[…]
Perché si tratta di scoprire e accogliere l’altro nella peculiarità della sua fede e di arricchirsi a vicenda con la differenza, in una relazione segnata dalla benevolenza e dalla ricerca di ciò che possiamo fare insieme. Così intesa, la costruzione di ponti tra gli uomini, dal punto di vista del dialogo interreligioso, chiede di essere vissuta sotto il segno della convivialità, dell’amicizia e, ancor più, della fraternità».
Vi lascio anche la bellissima Ave Maria cantata in arabo di fronte al papa e al re del Marocco.

Sandra, la fidanzata santa

Una ragazza di 23 anni che si spendeva per gli altri con gli amici della Comunità Papa Giovanni XXIII. E che proprio don Oreste Benzi – dopo il tragico incidente stradale che la portò via nel 1984 propose per la causa di beatificazione dicendo: abbiamo sposi santi, genitori santi; non sarebbe bello avere un giorno anche una fidanzata santa? È il profilo di Sandra Sabattini, laica romagnola per la quale papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche.

Era nata a Riccione nel 1961 Sandra e aveva conosciuto molto giovane don Oreste e la Comunità Giovanni XXIII. Già a quattordici anni – di ritorno da un campo con un gruppo di disabili annotava sul suo diario: «Ci siamo spezzati le ossa, ma quella è gente che io non abbandonerò mai». Così è stato: per anni le sue giornate sono state scandite tra la scuola, il servizio a chi aveva bisogno e la vita spirituale, nello stile della papa Giovanni XXIII.

All’università aveva scelto medicina, sognando di partire per l’Africa; intanto era arrivato il fidanzamento con Guido. Tutte esperienze vissute lasciandosi guidare dalla radicalità del Vangelo: «Oggi c’è un’inflazione di buoni cristiani, mentre il mondo ha bisogno di santi», annotava sempre sul suo diario. Il 29 aprile 1984 a Igea Marina fu travolta da un’auto; morì tre giorni dopo a Bologna. (tratto da Avvenire dell’8 marzo 2018)
Le virtù eroiche di Sandra Sabattini sono state ufficialmente riconosciute da Papa Francesco lo scorso 6 marzo.

Non fatevi manipolare, ribellatevi!

E’ una sorta di SOS quello che il Papa ha lanciato ai giovani di tutto il mondo per metterli in guardia dalle manipolazioni, dal rischio del pensiero unico, dal tentativo in atto di ridurre le giovani generazioni a fenomeni di massa spesso a fini commerciali.
«Un giovane gioioso è 
difficile da manipolare» ha affermato Papa Francesco, in occasione della Domenica delle Palme, davanti a centinaia di giovani arrivati da tutto il mondo in preparazione del sinodo che quest’autunno si aprirà in Vaticano, facendo riferimento alla gioia che offre il cristianesimo. «Per questo la gioia è per alcuni 
motivo di fastidio. Far tacere i giovani -ha detto il Papa- è una tentazione sempre esistita» e «ci sono molti modi per 
rendere i giovani silenziosi”, “anestetizzarli e addormentarli 
perché non facciano rumore. Cari giovani, sta a voi la
 decisione», «se gli altri tacciono, se noi anziani e 
responsabili, tante volte corrotti, stiamo zitti, se il mondo 
tace vi domando: voi griderete? Per favore, decidetevi prima
 che gridino le pietre».

Il brano evangelico che Papa Francesco prende a esempio per ampliare la riflessione e riportarla ai giorni nostri è quello dei farisei che se la prendono con Gesù e gli chiedono 
di calmarli e farli stare zitti. «Ci sono molti modi per rendere 
i giovani silenziosi e invisibili. Molti modi di anestetizzarli 
e addormentarli perché’ non facciano “rumore”, perché non si 
facciano domande e non si mettano in discussione. Ci sono molti 
modi di farli stare tranquilli perché non si coinvolgano e i 
loro sogni perdano quota e diventino fantasticherie rasoterra, 
meschine, tristi».

«In questa Domenica delle Palme, celebrando la Giornata 
Mondiale della Gioventù, ci fa bene ascoltare – ha 
sottolineato Francesco – la risposta di Gesù ai farisei di 
ieri e di tutti i tempi: «Se questi taceranno, grideranno le 
pietre». Cari giovani, sta a voi la decisione di gridare, sta a 
voi decidervi per l’Osanna della domenica così da non cadere 
nel “crocifiggilo!” del venerdì. E sta a voi non restare 
zitti. Se gli altri tacciono, se noi anziani e responsabili 
stiamo zitti, se il mondo tace e perde la gioia, vi domando: 
voi griderete? Per favore – ha chiesto il Papa ai ragazzi di 
tutto il mondo – decidetevi prima che gridino le pietre».
Adattato da Il Papa lancia Sos ai giovani: «Non fatevi manipolare ribellatevi» di Franca Giansoldati in www.ilmessaggero.it

Una croce tra i martiri del Colosseo

Ci fu martirio di cristiani nel Colosseo?
La questione si trascina da tempo. Secondo alcuni storici moderni i cristiani a Roma venivano uccisi in altri contesti come nelle carceri, nel Circo di Nerone (o nelle vicinanze) o addirittura nel Circo Massimo, per non dire lungo le strade o in contesti periferici. Eppure per tradizione noi immaginiamo il Colosseo come luogo di martirio di tanti cristiani. Non è un caso, infatti,  che la Via Crucis del Venerdì Santo, alla presenza del Papa, avvenga in questo luogo, inteso come simbolo delle uccisioni di fedeli in Cristo avvenute a Roma come in tutto il mondo. Studi recenti sembrano avvalorare la fondatezza di questa tradizione.
Durante la recente restaurazione dell’Anfiteatro Flavio (questo è l’altro nome del Colosseo) è stato ritrovato il disegno di una croce  su un tratto di intonaco risalente al terzo secolo. In un primo momento la presenza della croce è stata trascurata, anche perché inserita in un contesto di parole, numeri e segni sovrapposti e risalenti a varie epoche. Quando però Pier Luigi Guiducci, docente di Storia della Chiesa alla Lateranense, si è imbattuto per caso in una fotografia di questo ‘lacerto’ di muro, è scattata una molla. «Ho visto subito la croce in basso a sinistra. Ho notato che era di un colore rosso diverso dal resto delle scritte e ho deciso di approfondire», afferma lo storico. Il tratto di intonaco con la croce si trova nel corridoio di servizio poco illuminato che immette al terzo livello dell’anfiteatro, che storicamente era riservato al popolino. Questa è la prima cosa che ha incuriosito Guiducci, perché mai erano state individuate croci ai piani superiori. Gli unici altri graffiti col simbolo cristiano sono posti al primo livello, negli ambienti prossimi all’arena e gli storici li hanno sempre attribuiti all’epoca medievale, incisi dagli operai addetti all’estrazione di materiali da costruzione oppure da persone che nei secoli hanno sfruttato le strutture del Colosseo come riparo o come abitazione. Teoria che convince Guiducci solo in parte, avendo notato che una di queste semplici croci è analoga a un graffito presente nelle catacombe di Domitilla (II secolo).

Ma cosa ha di diverso la croce trovata al terzo livello?
Intanto il colore. Il rosso che è stato usato per segnarla sul muro è tipico del III secolo e molti ritrovamenti testimoniano che lo stesso pigmento è stato utilizzato proprio nel Colosseo per la decorazione degli intonaci interni. Inoltre la croce è disegnata, in piccolo, fra due grandi lettere ‘T’ e ‘S’, ed è posta, in posizione lievemente sopraelevata, sulla linea grafica che le congiunge alla base. Il suo significato è quindi strettamente collegato a quello delle due lettere che la inscrivono.  Ma qual è la relazione tra questa croce e le lettere? Prima si è pensato all’ipotesi che si trattasse della prima e dell’ultima lettera di un nome romano, come Tarcisius o Theseus. Ma da varie risultanze di graffiti di epoca latina si sa per certo che i romani non avevano l’abitudine di segnare i nomi propri sui muri con la prima e l’ultima lettera, ma li scrivevano per esteso. Vagliate altre ipotesi, Guiducci ha pensato di contestualizzare le due lettere nell’ambiente degli spettacoli che si tenevano nell’arena e nel contesto sociale relativo al suo terzo livello.

Così è giunto alla conclusione che con ‘T’ ed ‘S’ si sia voluta indicare la parola Taurus.

Fra la seconda metà del secondo secolo e tutto il terzo secolo i tori erano fra gli animali più usati nelle arene per i combattimenti con gladiatori, per i combattimenti fra animali, ma anche per uccidere i condannati a morte ( damnatio ad bestias). Da numerose attestazioni sappiamo che anche tanti cristiani, condannati a morte perché non abiuravano, venivano condotti nelle arene per subire la stessa sorte di tanti criminali. Ignazio di Antiochia, per esempio, subì questa sorte nel 107 e proprio nell’anfiteatro Flavio.
In alcune particolare occasioni, come per la celebrazione di importanti vittorie militari, al Colosseo si indicevano ‘giochi’ di festeggiamento che duravano mesi e gli ‘spettacoli’ erano anche tre al giorno, con l’impiego di migliaia di animali e di uomini: per la vittoria sui Daci, l’imperatore Traiano organizzò 123 giorni di combattimenti. Come nel caso di Ignazio, i condannati venivano ‘importati’ per l’occorrenza da varie parti dell’impero. E per condannare dei cristiani a morte ci voleva davvero poco. Tertulliano alla fine del secondo secolo scrive che qualunque cosa accadesse nell’impero, «che tracimasse il Tevere o vennise a piovere», subito si alzava il grido « Christianos ad leonem ».

Ecco allora che la croce inscritta nella parola ‘taurus’ disegnata col rosso nel buio corridoio che conduceva al terzo anello del Colosseo, destinato al popolo urlante, acquista il tono di una chiara invocazione alla misericordia, una affidamento al Cristo che salva, per il cristiano che ha appena trovato, o sta trovando la morte lacerato da un toro, nella sottostante arena. Insomma, quella croce posta a congiunzione fra le lettere ‘T’ e ‘S’ è in qualche modo una sorta di attestazione storica che nel Colosseo, fra secondo e terzo secolo, c’è stato chi ha avuto piena coscienza che un cristiano era morto ad bestias e ne ha avuto pietà.
Tratto e adattato da Avvenire del 14/12/2017 a firma di Roberto I. Zanini

La nuova proposta per la classe terza: Il mondo può ancora aver bisogno del Vangelo?

Il Vangelo ha anche un contenuto sociale, perché la relazione personale con Dio si deve tradurre in comportamenti di fraternità, di pace e di giustizia. Per questo la Chiesa ha avuto anche un’attenzione particolare ai problemi dell’uomo che abita questo nostro tempo: da qui la dottrina sociale della Chiesa e alcuni documenti che avremo modo di leggere e capire. Questa necessaria coerenza tra la fede e la vita è testimoniata anche da persone che hanno fatto scelte politiche e sociali ispirate al Vangelo. Il vostro compito sarà quello di raccontare in un’immagine e poche frasi quanto avete colto in questo percorso di apprendimento.
Cliccare sull’immagine per vedere la proposta didattica.

Donne dottori della Chiesa

La qualifica di Dottore della Chiesa  è attribuita fin dall’antichità ad alcuni santi della Chiesa tanto orientale che occidentale ed è quindi un importante elemento di comunione con i fratelli ortodossi. Per l’Oriente ricordiamo i santi dottori Basilio Magno, Giovanni Crisostomo, Atanasio di Alessandria e Gregorio di Nazianzo, per l’occidente Ambrogio di Milano, Agostino di Ippona, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino.
In età relativamente recente si è giunti a riconoscere tale qualifica anche ad alcune donne che, con il loro ‘genio femminile’, sono state testimoni di un amore tenero per la persona di Gesù.

La prima donna a ricevere questo riconoscimento è stata santa Teresa di Gesù. Nata ad Avila in Spagna nel 1515, Teresa fu una delle protagoniste della riforma del Carmelo e più in generale della vita della Chiesa nel tempo segnato dalla riforma protestante. Scrisse Paolo VI nella lettera apostolica La multiforme sapienza divina del 27 settembre 1970: «Noi non dubitiamo doverla proclamare dottore della Chiesa, prima fra le donne, specialmente per la sua conoscenza e dottrina delle cose divine». Amante della lettura e dei libri, Teresa sognava una vita avventurosa. Finì, tuttavia, per scegliere la vita religiosa nell’ordine carmelitano. Inizialmente si trovò a suo agio in una comunità molto numerosa. Alla soglia dei 40 anni, invece, le accadde un fatto che impresse una svolta alla sua vita: l’esperienza mistica, puramente spirituale, della presenza di Gesù induce Teresa a divenire scrittrice, fondatrice di monasteri, guida di un movimento spirituale.
È sostenuta in questa svolta dall’incontro con san Giovanni della Croce che diventa suo discepolo e nello stesso tempo maestro e confessore. In breve, i due danno origine ad una delle più avvincenti avventure dello spirito cristiano: la loro sintonia è perfetta, la loro poesia infuocata d’amore di Dio.
Teresa ha una buona conoscenza della Sacra Scrittura, ma per la sua opera di scrittrice attinge soprattutto alla sua esperienza di Gesù. Il Libro della vita è uno scritto tra ringraziamento e testimonianza.
Nello stile delle Confessioni di sant’Agostino, l’autrice racconta l’opera di Dio nella sua vita. Per le sue prime consorelle scrive, invece, il Cammino della perfezione, un libro di iniziazione alla vita contemplativa. Seguì il
Castello interiore, una reinterpretazione del suo itinerario spirituale e nello stesso tempo una sintesi di ciò che è la vita spirituale quando raggiunge il suo pieno sviluppo. Il magistero di Teresa si esercitò anche attraverso le lettere che manifestano una grande capacità immaginativa. Parla di castello interiore, di orto dell’anima, di acqua viva di fonti e canali, di rispetto della persona, di gioia di vivere, di amore per la natura. In breve, per la solidità del suo pensiero spirituale, per la sua sensibilità poetica e per le doti di scrittrice Teresa meritava pienamente di essere proclamata prima donna dottore della Chiesa.

Quasi a voler dimostrare che il riconoscimento attribuito a Teresa d’Avila non era un fatto isolato, a distanza di una settimana Paolo VI proclamò dottore della Chiesa anche santa Caterina di Siena. La giovane senese non poté studiare come i suoi confratelli Alberto Magno e Tommaso d’Aquino in prestigiose università o centri di studio dell’ordine. Fin da bambina, tuttavia, visse all’ombra del convento dei padri domenicani di Fontebranda, assimilò una grande sensibilità per il sentire con Dio e per Dio, aderì alle mantellate, il terzo ordine di san Domenico. Disse di lei Paolo VI: «Ciò che più colpisce nella Santa è la sapienza infusa, cioè la lucida, profonda ed inebriante assimilazione delle verità divine e dei misteri della fede, contenuti nei Libri Sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento: una assimilazione, favorita, sì, da doti naturali singolarissime, ma evidentemente prodigiosa, dovuta ad un carisma di sapienza dello Spirito Santo, un carisma mistico».
La grande intuizione della santa di Siena è la ricerca dell’adesione piena a Dio per mezzo dell’unione mistica con l’umanità di Cristo. Particolarmente avvincente il racconto del cambio del cuore tra la santa e Gesù: «Un giorno mentre pregava le parve che il Signore Gesù le avesse aperto il petto dalla parte di sinistra e le avesse portato via il cuore. Dopo un certo tempo, egli le riapparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse: ‘Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore, ecco che ora ti do il mio, col quale sempre vivrai’». Molto amata dai suoi discepoli, Caterina venne da loro progressivamente accostata ai santi dottori della Chiesa. Anche per questo motivo, dopo 6 secoli dalla sua morte, è stata a sua volta inserita nell’elenco dei santi dottori.

Con santa Teresa di Gesù Bambino e del volto santo, la terza donna proclamata dottore della Chiesa da san Giovanni Paolo II il 19 ottobre del 1997, ritorniamo al Carmelo.
La giovane Teresa Martin vi entra nel 1888 ad appena 15 anni. Figlia di genitori a loro volta proclamati santi e compagna di sorelle che a loro volta scelsero la vita religiosa, Teresa deve in un primo momento liberarsi di una pietà troppo scontata, troppo naturale. Fin dai primi anni al Carmelo «l’aridità divenne il mio pane quotidiano», mentre nella fase finale della malattia che la porterà alla morte le è chiesto di «mangiare alla mensa dei peccatori, di vivere l’assenza di fede di coloro che sono lontani da Dio». Prove autentiche che non intaccano l’esperienza essenziale di Teresa che è quella dell’amore di Dio cui ella è chiamata a rispondere con la piccola via, la via dell’infanzia spirituale. «L’ascensore che deve innalzarmi fino al cielo sono le vostre braccia, Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, al contrario bisogna che resti piccola, che lo divenga sempre più». In breve, Teresa ha scoperto, secondo von Balthasar, l’esperienza della chenosi di Gesù, della discesa per amore accettando la propria e altrui debolezza come luogo della grazia e quindi della resurrezione. Per questo Teresa non si aspetta niente da se stessa, ella spende la vita nel «gettare fiori», nel «niente» di ogni giornata vissuta per amore. Scrive ancora: «Quello che piace a Lui è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la speranza cieca che ho nella sua misericordia». Davvero l’insegnamento di Teresa resta di una sconcertante attualità, in piena sintonia con il magistero di papa Francesco.

La santa più di recente riconosciuta dottore della Chiesa è la più anziana in ordine di tempo. Santa Ildegarde di Bingen, nata nel 1089 e morta nel 1179, è stata dichiarata dottore della Chiesa dal connazionale Benedetto XVI, il 7 ottobre del 2012. L’insegnamento di santa Ildegarde si svolge su un duplice livello: quello della fede e quello della natura. Il magistero spirituale ebbe origine da una serie di visioni che la voce di Dio poi le spiegava. Da una parte esprimevano il desiderio e la consapevolezza dell’unione con Dio, dall’altra suggerivano il comportamento da tenere nel presente e nel futuro. Di qui la grande autorità che Ildegarde ebbe sui contemporanei. Alla dimensione spirituale la monaca benedettina univa un interesse non comune nel suo tempo per l’analisi dei fenomeni naturali, nel cosmo e nell’uomo. Il tutto aveva fondamento nella convinzione che Dio è luce in eterno movimento che crea, conserva e rinnova il cosmo e l’uomo. Il Cristo è la pienezza della rivelazione di Dio, ma anche un uomo bellissimo e sommamente degno di essere amato. Egli è il punto d’incontro tra l’uomo e Dio. La natura, che reca l’impronta di Dio, è nello stesso tempo pienamente affidata alla responsabilità dell’uomo. Disse papa Benedetto proclamandola santa e dottore della Chiesa il 7 ottobre del 2012: «L’attribuzione del titolo di Dottore della Chiesa universale a Ildegarde di Bingen ha un grande significato per il mondo di oggi e una straordinaria importanza per le donne. In Ildegarde risultano espressi i più nobili valori della femminilità: perciò anche la presenza della donna nella Chiesa e nella società viene illuminata dalla sua figura, sia nell’ottica della ricerca scientifica sia in quella dell’azione pastorale». Resta solo da augurarsi che l’elenco delle donne dottori possa arricchirsi presto di nuove figure magari originarie di Paesi di più recente adesione al cristianesimo.
Adattato da Elio Guerriero, Donne dottori della Chiesa: Vangelo e amore per Gesù,  in Avvenire del l’8 settembre 2017

Uomini e donne del dialogo interreligioso

Nel corso del viaggio in Egitto del 28 aprile del 2017, parlando alla prestigiosa università di Al-Azhar al Cairo, dichiarava papa Francesco: «Nel campo del dialogo, specialmente interreligioso, siamo sempre chiamati a camminare insieme, nella convinzione che l’avvenire di tutti dipende anche dall’incontro tra le religioni e le culture». Davvero uno stile nuovo anticipato da alcuni santi e testimoni che hanno saputo far prevalere la carità su precedenti atteggiamenti di astio e di rivalità. L’articolo di Elio Guerriero in Avvenire del 9 agosto 2017 ci aiuta a ricordare alcuni di loro.
Nel 1219 san Francesco si presentò al sultano Al Kamil con sentimenti di amore universale.
Il beato Charles de Foucauld (1858-1916) si fece interprete di un atteggiamento di rispetto e di simpatia verso la religione islamica. Rimasto presto orfano, venne cresciuto da un nonno colonnello dell’esercito, che lo avviò a sua volta alla carriera militare. Negli anni giovanili, tuttavia, condusse una vita di ozio e trasgressioni fino a farsi espellere dall’esercito.
Compì allora alcuni viaggi di esplorazione in Marocco che gli valsero degli importanti riconoscimenti in campo geografico. Nel frattempo, qualcosa in lui stava cambiando.
Riaffioravano i suoi ricordi d’infanzia, insieme a quelli dei musulmani in preghiera. Riferì in una lettera all’amico Henri de Castries: «Non appena ho creduto che ci fosse un Dio, ho capito che non potevo vivere che per lui: la mia vocazione religiosa è nata nel momento stesso in cui nasceva la mia fede: Dio è grande…». Entrò allora nella trappa di Nostra Signora delle nevi ed emise i voti monastici. Partì poi per la Terra Santa dove cercò di imitare la vita povera degli anni nascosti di Gesù. Chiese poi di diventare sacerdote per potersi recare ai margini del deserto del Sahara, nell’oasi di Béni-Abbes e celebrare in solitudine il sacrificio della salvezza per elevare l’Ostia nel deserto, adorare il Signore che in essa è nascosto e, così, portarlo al prossimo. Venne ucciso il 1° dicembre del 1916 da un gruppo di tuareg in rivolta.
Un’altra figura che merita di essere ricordata è la santa ortodossa, mat’ Marija Skobcova. Nata in Russia da nobile famiglia nel 1891, Elizaveta Pilenko visse da vicino la fine della dinastia degli zar, gli anni duri della rivoluzione sovietica, la fuga dalla madre patria e l’approdo a Parigi. Due volte sposata, ebbe tre figli, ma all’istituto di teologia ortodossa di San Sergio incontrò personalità straordinarie. E allora matura una nuova vocazione, quella di diventare monaca in mezzo al mondo. È una situazione eccezionale anche per la Chiesa ortodossa, ma il metropolita Evlogij, grande personalità del cristianesimo russo dell’emigrazione, accoglie questo suo desiderio. Le dice al momento della tonsura monastica: «Vi è più amore, più umiltà e necessità nel rimanere nelle retrovie del mondo, respirandone l’aria viziata». Dal canto suo madre Maria, soprattutto dopo la morte delle due figlie naturali, vuole diventare una madre universale. Dapprima si dedica a raccogliere i più poveri tra i migranti russi poi estende la sua azione agli ebrei perseguitati. In particolare, nel luglio del 1942, si reca al Velodromo d’inverno dove sono raccolti i bambini ebrei destinati al campo di concentramento. Con la sua prontezza di spirito riesce a farne fuggire un certo numero, ma firma così la sua condanna. Gli è vicino l’unico figlio rimasto in vita, Jura, che viene arrestato e deportato prima ancora della madre. Arrestata a sua volta, madre Maria viene deportata nel campo di Ravensbrück dove muore il 31 gennaio 1945. Giusta delle nazioni, è stata canonizzata insieme con il figlio il 6 gennaio del 2004, divenendo così esempio straordinario dell’ecumenismo cristiano e del dialogo tra le religioni.
Il cardinale di Firenze Elia Dalla Costa nel 1938 pubblicò una nota pastorale in cui prendeva le distanze dalle leggi razziali contro gli ebrei. Successivamente favorì l’aiuto concreto a favore degli ebrei. Per questa sua opera Dalla Costa è stato riconosciuto come giusto delle nazioni. Amico del patriarca Roncalli, ne favorì l’elezione a pontefice e ne sostenne l’iniziativa conciliare. Trascorse gli ultimi anni della vita nel silenzio e nella preghiera, nell’amore sempre più vivo per Gesù.
Ritornando al dialogo con l’islam, è diventata famosa la testimonianza dei monaci trappisti di Tibhirine sulla costa atlantica dell’Algeria. Guidati dal priore padre Christian de Chergé, i monaci conducevano una vita di preghiera e insieme di testimonianza cristiana in un Paese islamico. I rapporti con gli abitanti del luogo a lungo pacifici e rispettosi divennero improvvisamente tesi in seguito alla guerra civile che sconvolse l’Algeria. I monaci trappisti sapevano di essere in pericolo, decisero tuttavia di restare nel Paese che li aveva accolti per solidarietà con le tante vittime innocenti della violenza. Scrisse il padre de Chergé in quello che viene considerato il testamento dei trappisti di Tibhirine: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo Paese… Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato».
Come aveva previsto padre Christian, 7 monaci, tra cui lo stesso priore, vennero presi in ostaggio nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996. I loro corpi martoriati vennero ritrovati dopo circa due mesi. La morte dei monaci di Tibhirine suscitò molto scalpore in Occidente. Il regista Xavier Beauvois ricostruì la loro vicenda nel film Uomini di Dio, vincitore del premio speciale della critica al festival di Cannes del 2012. È importante tuttavia sottolineare che i monaci erano ben lontani dal cercare la notorietà e soprattutto non desideravano suscitare sentimenti contrari all’islam. Volevano, invece, evidenziare gli elementi che possono favorire un incontro di fraternità tra le religioni.
Shahbaz Bhatti (1968 2011) era ministro per le Minoranze religiose in Pakistan. Noto per il suo impegno a favore delle minoranze religiose nel suo Paese, si definiva un uomo che aveva distrutto le sue navi, che non poteva dunque recedere dal suo impegno. Aveva scritto in un testo di autopresentazione: «Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita…». L’auspicio di Bhatti venne accolto nel mistero della volontà di Dio ed egli venne ucciso il 2 marzo del 2011. Aveva scritto ancora: «Credo che i cristiani del mondo che hanno teso una mano agli islamici in occasione del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno, sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione».

Il Papa: uccidere in nome di Dio è satanico

Alcuni giorni fa, durante l’omelia della celebrazione liturgica della mattina nella cappella di Casa Santa Marta, Papa Francesco, nel ricordare padre Jacques Hamel, il sacerdote ucciso in chiesa nel luglio di quest’anno da due fanatici, ha espresso un concetto molto chiaro: uccidere in nome di Dio è satanico.
Vi riporto la trascrizione dell’omelia.
[…] Gesù Cristo, il primo martire, il primo che dà la vita per noi, e da questo mistero di Cristo incomincia tutta, tutta la storia del martirio cristiano, dai primi secoli fino a oggi.
I primi cristiani hanno fatto la confessione di Gesù Cristo pagando con la loro vita; ai primi cristiani era proposta l’apostasia, cioè: “Dite che il nostro dio è il vero, non il tuo [vostro]. Fate un sacrificio al nostro dio o ai nostri dei”, e quando non facevano questo, quando rifiutavano l’apostasia venivano uccisi. Questa storia si ripete fino a oggi e oggi nella Chiesa ci sono più martiri cristiani dei tempi primi. Oggi ci sono cristiani assassinati, torturati, carcerati, sgozzati perché non rinnegano Gesù Cristo. In questa storia, arriviamo al nostro père Jacques: lui fa parte di questa catena di martiri. I cristiani che oggi soffrono – sia nel carcere o con la morte o con le torture – per non rinnegare Gesù Cristo, fanno vedere proprio la crudeltà di questa persecuzione. E questa crudeltà che chiede l’apostasia, diciamo la parola: è satanica. E quanto piacerebbe che tutte le confessioni religiose dicessero: “Uccidere in nome di Dio è satanico”.
Padre Jacques Hamel è stato sgozzato nella Croce, proprio mentre celebrava il sacrificio della Croce di Cristo. Uomo buono, mite, di fratellanza, che sempre cercava di fare la pace è stato assassinato come se fosse un criminale. Questo è il filo satanico della persecuzione. Ma c’è una cosa, in quest’uomo, che ha accettato il suo martirio lì, con il martirio di Cristo, all’altare, una cosa che mi fa pensare tanto: in mezzo al momento difficile che viveva, in mezzo anche a questa tragedia che lui vedeva venire, un uomo mite, un uomo buono, un uomo che faceva fratellanza, non ha perso la lucidità di accusare e dire chiaramente il nome dell’assassino. E ha detto chiaramente: “Vattene, Satana!”. Ha dato la vita per noi, ha dato la vita per non rinnegare Gesù. Ha dato la vita nello stesso sacrificio di Gesù sull’altare e da lì ha accusato l’autore della persecuzione: “Vattene, Satana!”.