Archiviare e condividere documenti online: Scribd

Una collega mi chiedeva dove poter archiviare e condividere dei documenti online.
Io utilizzo Scribd, una sorta di social network come Youtube che, invece che i video, permette di condividere documenti.
Scribd consente di archiviare documenti di differenti formati: word, excel, pdf, ppt. Inoltre, offre un codice che permette l’inserimento(embed) dei documenti caricati in un blog o in un wiki.
Cliccando qui si accede ad un tutorial in italiano, che è possibile scaricare in formato pdf.

La luce di Dio

«Oggi possiamo illuminare le nostre città in mo­do così abbagliante che le stelle del cielo non so­no più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incre­dibilmente tanto, ma ciò che va al di là di que­sto, Dio e il bene, non lo riusciamo più a indivi­duare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzio­ne della luce di Dio nel nostro mondo, un’aper­tura dei nostri occhi per la vera luce».
Benedetto XVI, omelia nella notte di Pasqua, 7 aprile

Creare puzzle da inserire in un blog

Alcuni alunni mi hanno chiesto come si possono creare dei puzzle da inserire in un blog; eccovi accontentati.
Andate su jigsawplanet.
Una volta collegati al sito selezionate una delle foto messe a disposizione dal sito oppure caricatene una vostra. Avete poi la possibilità di scegliere la difficoltà del puzzle, il numero dei pezzi, la forma, ecc.
Per inserire il puzzle nel vostro blog, andate con il mouse su share cliccate su embed. Il codice da copiare e incollare sul  post che avete intenzione di scrivere (in modalità html), lo trovate sotto l’immagine del vostro puzzle. Spero di esservi stata utile. Buon lavoro, ragazzi!

iPad «senza» Cristo

Sembra che il mio iPad di Cristo non ne voglia proprio sapere. Anzi è a non volerne sapere, il programma di scrittura di Apple, fratello del più noto Word usato in ambiente Windows. Pages , di fronte ai miei errori di battitura, come ogni buon sistema di scrittura elettronico, ha la gentile compulsione di provare a intuire cosa intendevo scrivere e cerca di propormi delle soluzioni alternative. Così se sbagliandomi digito ‘amblatrio’ è bravissimo a segnalarmi il refuso e indicarmi come unica chance sostitutiva, ‘ambulatorio’, aggiungendo automaticamente le due vocali mancanti.  […]  Eppure, se mi scappa di digitare ‘Crsto’ ritrovo come suggerimenti ‘Cretto’ (che ho bisogno del dizionario per scoprire che è una forma in disuso per spaccatura), ‘Crato’ (che nessuna reminiscenza geografica mi aiuta a situare in Portogallo), ‘Cesto’ e ‘Casto’; e dire che basterebbe solo una vocale per riportare in vita la parola che volevo, peraltro abbastanza comune, almeno per due miliardi abbondanti di persone. […] Le volte però che riesco a digitarne correttamente il nome, Pages lo lascia come tale e non riporta alcun errore. Come dire: se Cristo lo conosci e sai pure come scriverlo, bene, altrimenti non aspettarti che te lo suggerisca io. Un caso fortuito? Una innocente dimenticanza? Piuttosto un caso di censura; quantomeno lessicale.Persino come lemma si tende a espungere Cristo dalle nostre vite globalizzate e sorvegliate in nome del politicamente corretto, il suo nome reso letteralmente irriconoscibile e non riconosciuto nelle pagine che scriviamo. Eppure sappiamo che il non poter o non saper più nominare qualcosa porta prima o poi alla sua scomparsa, all’evanescenza di ciò che il lemma indica fino alla sua ultima non pensabilità. Infatti non riusciamo a pensare senza parole, senza appoggiarci a loro.
Siamo fatti così, anche nel nostro pensiero inesorabilmente abbiamo bisogno dei lemmi per costruire i concetti, descrivere i nostri affetti, indicare oggetti ed elaborare idee più o meno buone. È solo una questione di parole, si sente dire a volte. E invece è proprio tutta una questione di parole! Lo sappiamo bene quando gioiamo per le frasi buone che ci vengono incontro e quelle cattive che ci si schiantano addosso.
Il caso di
 Pages – un software con dietro un nutrito gruppo di programmatori e sviluppatori che lo hanno elaborato e portato sul mercato italiano – è in qualche modo emblematico della nostra condizione personale e sociale. Espungere dal vocabolario Cristo, non considerare che se ne possa nemmeno scrivere il nome su un testo al computer, da una parte può essere preso come uno dei tanti segni di ‘laicizzazione’ del tessuto quotidiano, ma dall’altra come un caso specifico che ne impedisce anche attivamente la trasmissione del nome. E con esso del suo pensiero, del suo vangelo, così radicalmente decisivo per ciascuno di noi per il fatto di essere sempre innestato sul Padre, in presa diretta con Lui. Senza Cristo infatti non sapremmo più concepirci come figli, ossia eredi. Non possiamo non dirci cristiani, scriveva Benedetto Croce nel 1942. A settant’anni di distanza non è peregrino affermare che la situazione è radicalmente cambiata: oggi rischiamo di non poter nemmeno più scrivere Crato. Pardon, Cristo. Almeno stando a Pages e a chi lo ha strutturato in questo modo per noi. Fortuna che ogni tanto capita di incontrare qualcuno che quel nome ce lo ripete di persona. Conviene non lasciarselo scappare. 

Tratto da LUIGI BALLERINI su Avvenire del 24 aprile 2012 

Stop al turpiloquio

Ci siamo abituati perché nella vita, dicono, ci si abitua a tutto. Ma per chi è nostalgico cultore del parlar garbato non è facile. Il turpiloquio, il suo dilagare: parliamo di questo. «Viviamo tempi così», mi disse una volta (più di trent’anni fa), padre Turoldo. Brutti tempi allora, figuriamoci oggi. La domanda che mi faccio è: perché mettersi addosso un vestito sporco quando ci sono gli abiti puliti? So la risposta: «Ma perché così va il mondo.E se tu non ti adegui sei un bacchettone fuori tempo». Così quelle che una volta si chiamavano ‘parolacce’ sono state, come si dice, sdoganate. Una dopo l’altra fino a formare, tutte insieme, il neovolgare quotidiano. Linguaggio da angiporto lo si chiamava un tempo, ora è lingua comune. Le intercettazione, per esempio, sulle varie disonestà pubbliche e private. Ce le fanno ascoltare e sentiamo le volgarità traboccare come da un canale di scolo. Imbrogli, raggiri, frodi, combinazioni truffaldine, tutto è avvolto in un linguaggio imprecante, ingiurioso. E fosse confinato lì, nel malaffare, e in pochi altri luoghi per così dire appositi, il turpiloquio. Ma no, è dappertutto e tocca ogni giorno nuove punte, supera ogni giorno altre barriere.[…] Personalmente, tra le conseguenze del parlar male ne fisserei tre. La prima: la nostra lingua, già impoverita da slang giovanile, lessico da Sms e anglismi di vario genere, si svilisce sempre di più. Penalizzato già di fronte a tanti altri idiomi, l’italiano si riduce a un glossario rinsecchito, malamente anglicizzato e maculato di volgarità. Secondo: il turpiloquio toglie aria, spazio, senso, importanza all’educazione. La buona formazione comportava, pretendeva il benparlare. Oggi educazione e formazione della persona sono difficili anche perché c’è acquiescenza e conseguente assuefazione alla volgarità. Terzo: il turpiloquio depista tanti giovani che avrebbero bisogno di essere ben altrimenti indirizzati.[…] Il lasciarlo correre, per esempio, da parte dei genitori, significa abdicare al proprio ruolo, favorire la corrosione dei rapporti familiari, minare il reciproco rispetto. Vero è che, se l’interno riflette il fuori dove ‘nevica la storia’, il turpiloquio entra in casa anche con il linguaggio di amati comici, con quello ‘aperto’ dei romanzi, con i dialoghi del cinema.[…] Ci sono cento sinonimi di ‘arrabbiato’, ma si usa sempre e solo quello che deriva dall’organo di riproduzione maschile. E cento sono i modi di mandare uno a quel paese, ma a essere tirato in ballo è sempre il più volgare. Ora che questo malparlare possa essere figlio di grandi frustrazioni, nel senso che uno non ce la fa e si sfoga ricorrendo al trilussiano «quanno ce vo’ ce vo’», può essere, non lo so. Quello che so e che vedo è lo sfiancarsi progressivo del nostro linguaggio, dunque del nostro vivere insieme, sotto gli attacchi del neovolgare. Ci s’impoverisce anche così. Prima il vocabolario minimo per mettere in piedi una conversazione era di duemila parole, poi è diventato di mille, adesso non supererà le cinquecento: metà delle quali, neanche a dirlo, parolacce.
Tratto da GIORGIO DE SIMONE in Avvenire del 26 aprile 2012

Pentecoste: l’unità nella diversità

Per il lavoro, che stiamo per concludere, alla scoperta delle diverse confessioni cristiane, abbiamo riflettuto sul brano degli Atti che racconta la Pentecoste.
Vi lascio la riflessione di Valentina della 2^C e quella di Enzo Bianchi, priore di Bose.

“Costoro che parlano non son forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?” Questo si chiese la folla stupefatta. Dato che Dio può tutto, nulla è infatti impossibile a Dio. Alla domanda: che significa tutto ciò? Io rispondo così: gli apostoli parlavano e i diversi popoli capivano. Dio ha sempre usato un’unica lingua per esprimersi con i suoi figli e, seppur di diversa nazionalità, la capivano benissimo. La lingua che gli apostoli hanno usato è la lingua dello Spirito Santo cioè la lingua di Dio, il linguaggio dell’amore. Ecco perché tutti capivano. Questo tipo di linguaggio non è estraneo a nessuno, è uguale in tutte le parti del mondo ed è radicato in ciascuno di noi. E’ il linguaggio di DIO!!
(Valentina)

Il miracolo delle lingue suscitato dallo Spirito indica alla chiesa il compito di conciliare l’unità della Parola di Dio con la molteplicità dei modi in cui essa deve essere vissuta e annunciata nell’unica comunità dei credenti e in mezzo a tutte le genti: è così che la chiesa non deve imporre un proprio linguaggio, ma deve entrare nei linguaggi degli uomini per annunciare le meraviglie di Dio secondo le loro diverse forme e modalità di comprensione. Lo Spirito effuso a Pentecoste impegna ancora oggi la chiesa a creare vie e inventare modi per fare dell’alterità non un motivo di conflitto e di inimicizia, ma di comunione. Così la chiesa, ogni comunità cristiana, potrà essere segno del Regno universale che verrà e a cui è chiamata l’umanità intera attraverso, e non nonostante, le differenze che la attraversano. Tutto questo acuisce la sensibilità e l’attenzione che i cristiani devono avere per l’ecumenismo e il dialogo con le altre religioni. La coscienza delle radici ebraiche della fede cristiana, dell’ebraicità perenne di Gesù, di Israele come popolo dell’alleanza mai revocata e, al tempo stesso la coscienza della destinazione universale della salvezza cristiana, della molteplicità delle genti e delle culture in cui è chiamato a inseminarsi l’evangelo, dovrebbero far parte del corredo di ogni cristiano maturo. Così come dovrebbe farvi parte la consapevolezza che l’ecumenismo è elemento costitutivo della fede del battezzato, chiamato, in quanto seguace di Gesù Cristo, a pregare e operare per rimuovere lo scandalo della divisione tra i cristiani.
(Enzo Bianchi)

A voi giovani

«Io mi rivolgo ai giovani. Dovreste chiedere più esami e dovreste chiederli più rigorosi. Mi rendo conto che sembra un’assurdità, ma se non ci pensate voi, non lo faranno né i vostri genitori né i vostri insegnanti.
La vita è desiderio di piacere, di felicità, di ricchezza, di successo, di cose sempre nuove e diverse, ma tutto questo è possibile solo attraverso l’attesa, lo sforzo, le prove, la lotta.
Io sono convinto che tanti genitori oggi stiano sbagliando l’educazione dei propri figli. I grandi artisti del Rinascimento li mandavano a bottega da un altro e ce li lasciavano finché non erano formati. I grandi imprenditori, dopo averli fatti studiare in scuole dure e selettive, li facevano fare carriera incominciando dai lavori più umili. Oggi invece c’è chi regala la “fuoriserie” al figlio per il diciottesimo compleanno, sperando che studi.
Ecco perché non mi rivolgo ai vostri genitori, ma a voi, giovani.
Avete intelligenza sufficiente per capire che la sofferenza, la lotta, gli ostacoli, gli esami sono indispensabili per crescere, per diventare forti, per capire gli altri, il mondo.
Solo chi ha fatto fatica capisce la fatica degli altri, solo chi ha sofferto capisce la sofferenza.
La mente cresce risolvendo i problemi.
E lo stesso vale per la sensibilità, la creatività, la capacità di concentrarsi, persino la capacità di amare».
Francesco Alberoni (dalla Rivista della ELLEDICI Insegnare Religione, 5/2012)