I numeri e il loro significato: UNO – DUE – TRE

Il numero 1 esprime l’unità, l’assoluto, il principio, cioè l’ordine e la fine di tutto, come l’alfa e l’omega greci. E’ simbolo dell’essere, dell’uomo che sta in piedi

Il numero 2 esprime un’idea e il suo contrario:
– dualità (il visibile e l’invisibile, il creato el’eterno, il terreno e il celeste…)
– divisione (Adamo ed Eva, Caino e Abele, …)
– nuzialità (l’alleanza)
– i due Testamenti
– le due nature di Cristo (divina e umana)

Il numero 3 è l’idea della perfezione, del non-creato: per esempio Dio in tre Persone, la Trinità.
2+1=3 simboleggia la dualità che si risolve, chiave dell’unità. In ebraico il 3 corrisponde al superlativo; per esempio il Dio tre volte Sanctus (Is 6).
– 3 angeli visitano Abramo alla quercia di Mamre
– Giona rimane 3 giorni nella balena
– Gesù risorge il 3° giorno dopo la sua morte
– i Magi portano 3 doni: oro, incenso e mirra
– Cristo assume 3 funzioni: è Re – Sacerdote – Profeta
– 3 apostoli sono testimoni della Trasfigurazione: Pietro, Giacomo e Giovanni
– i battezzati venivano immersi 3 volte nell’acqua
– 3 sono le virtù teologali.

Tratto da “Tutto calcolato“, Agenda dell’educatore ACR 2010/2011.
Continua……

Suore di clausura

Le suore carmelitane di Ravenna (suore di clausura) hanno aperto il loro monastero alla cinepresa.
Ho letto che questo video è uno dei più cliccati del web.
Ve lo propongo, diviso in due parti.
Cliccando qui, entrate nel loro spazio su Facebook.

Un museo unico al mondo

Da Avvenire del 12 dicembre 2010

“C’ è un museo unico al mon­do, in un angolino di Italia all’ombra delle Dolomiti bellunesi. Un museo fatto di terra, acqua e pietre, raccolti con pazien­za in tutte, ma proprio tutte le na­zioni del pianeta, anche la più pic­cola e sperduta in mezzo all’oceano. Un ‘Museo dei sogni e della memo­ria’, come lo ha chiamato il suo fon­datore, Aldo Bertelle, che se l’è ‘in­ventato’ all’interno della Coopera­tiva Arcobaleno (Comunità Villa San Francesco) nella quale da oltre trent’anni accoglie minori in diffi­coltà e dà un futuro a ragazzi che fa­ticano anche a vedere il presente.
Tutto il pianeta è dunque racchiuso in quel museo, a rappresentare gli e­venti che hanno fatto grande – o in­finitamente piccola – la storia dell’u­manità: ci sono le pietre di Capaci e di via D’Amelio a Palermo, simboli del sangue versato da Falcone e Bor­sellino, e il pugno di terra arrivato dal Monte Nebo, dove Mosè con­templò la Terra Promessa, un sasso rosa dalla casa dell’ebreo Rabin e u­no giallo di Ramallah, giunto dalla dimora del palestinese Arafat, la pie­tra che ricorda Carlo Urbani, il me­dico marchigiano che morì per fer­mare il contagio della Sars, e quella che rappresenta Christian Barnard, arrivata da Città del Capo a memo­ria del primo trapianto di cuore. E a­vanti con il carbone di Marcinelle, in Belgio, a ricordo della strage di mi­natori italiani, o un pezzo del di­strutto ponte di Mostar in Bosnia, u­na scheggia di Nasiriyah e l’unica te­gola di Hiroshima mai ceduta dal go­verno giapponese come testimo­nianza del disa­stro atomico. E poi un mattone dalla casa di don Milani a Barbia­na, accanto a quello dei cantie­ri navali di Dan­zica… Centinaia di ‘macigni’, dunque, e altret­tanti ricordi che ‘pesano’, nel be­ne e nel male. Schegge di storia e di vita”.

Se volete saperne di più, cliccate qui.

Le regole e la crescita in umanità

Visto che stiamo parlando di regole, leggete, cari ragazzi di prima, questa frase di Franco Vaccari:

Una regola interiorizzata senza paura, con il compiacimento di un bene conquistato è un’ incredibile maturità umana“.

Che ne dite?
Certamente vedere in una regola un aiuto per la propria crescita è una conquista nel duro cammino verso l’umanizzazione.
Vi ricordate gli ebrei nel deserto? Cammino duro e faticoso, pieno di dubbi e di paure. Eppure il Signore d’Israele per quella strada aveva deciso di liberare il suo popolo. Con quel popolo Dio stipula un’alleanza, donandogli dieci parole, dieci regole per vivere liberi. Perchè crescere in umanità significa imparare a vivere la libertà non come arbitrio (faccio quello che mi pare), ma come capacità di scegliere ciò che è più giusto e buono, anche se è meno comodo e più difficile.
Vi lascio questo video, tratto dal Mosè di Roger Young. Il popolo d’Israele sceglie la via più rassicurante, più facile e si costruisce il vitello d’oro. Ma la via verso la libertà richiede il coraggio di aderire senza paura al bene indicato da Dio.
Soltanto rispettando le regole, quelle che ci rendono migliori, quelle che mettono un freno al nostro egoismo, quelle che ci aiutano a realizzare il bene per noi e per gli altri, cresciamo in umanità e conquistiamo la nostra maturità.

Siamo fatti per donare

Si è chiusa la gara di solidarietà nella scuola Tacchi Venturi. L’obiettivo è stato raggiunto: si conferma l’adozione a distanza di otto bambini, alcuni dell’India, altri del Brasile.
Un grazie a tutti: alunni, genitori, personale della scuola.

Nonostante la crisi, la solidarietà che siamo stati capaci di esprimere testimonia che donare è bello, ci rende uomini e donne migliori.
Vi lascio le parole di Davide Rondoni, pubblicate su Avvenire del 5 dicembre, che più delle mie esprimono quanto sia importante non rinunciare mai a donare.
“Donare è un atto non superfluo. Si può rinunciare a parecchie cose, ma non a donare. Perché fa parte della nostra natura umana. Un uomo che non dona è diventato meno uomo. Nella gratuità ‘assurda’ di fare un regalo anche quando sono aumentati i nostri bisogni, nella gratuità che va contro ogni logica di tornaconto pur in un momento in cui si devono più attentamente fare i conti, ri­siede un barlume di vero intorno alla no­stra natura: l’uomo è fatto per donare, per donarsi. C’è un impeto positivo che fa par­te della nostra natura, prima e sopra ogni altro. Questo barlume di verità – così pic­colo ma evidente e tenace – può illumi­nare non solo il piccolo e breve episodio del periodo dei regali di Natale, ma po­trebbe indicare qualcosa di importante a riguardo della vita sociale.
Occorre scommettere su questo indirizzo positivo della nostra natura. Lo stesso su cui si fondano tante iniziative di valore so­ciale pubblico per tutti, nei campi del­l’assistenza e dell’educazione e in altri set­tori. Sul fatto che l’uomo è un essere che dona, si può fondare una visione della so­cietà e della sua organizzazione non più improntata al sospetto e alla mortifica­zione burocratica e impositiva della so­cietà. (…) L’uomo è un essere che dona e ha legami. Il fatto che tali legami siano oggetto di at­tenzione particolare, di scambio di doni, ci fa vedere come la risorsa principale del­la nostra vita (anche in un’epoca di crisi) non stia nella chiusura egoistica, pauro­sa e calcolatrice in termini di diritti e do­veri. Si ha vera società intorno non al­l’uomo che come una monade isolata pensa a se stesso, misurando o inventan­do bisogni e diritti in astratto, ma alla per­sona come nodo di relazioni viventi, nel­le quali si evidenziano non solo potenti indicazioni della natura, ma anche limiti e rispetto”.

Benedetto XVI e la questione Dio

Credo che oggi (…) il nostro grande compito sia in primo luogo quello di rimettere di nuovo in luce la priorità di Dio. La cosa importante, oggi, è che si veda di nuovo che Dio c’è, che Dio ci riguarda e che ci risponde. E che al contrario quando viene a mancare, tutto può anche essere razionale (…) ma l’uomo perde la sua dignità e la sua specifica umanità; e così crolla l’essenziale.
(dal libro intervista a Benedetto XVI  “Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa, i segni dei tempi“)

Intorno ad una tavola

Dalla riflessione di Enzo Bianchi, pubblicata su Avvenire del 1 dicembre 2010 

(…) la tavola è il luogo attorno al quale si consuma un rito proprio, fra tutti gli animali, solo all’essere umano: quello di mangiare insieme e non in compe­tizione con i propri simili. E, man­giando, parlare insieme: la tavola è il luogo privilegiato per la parola scambiata, per il dialogo: si comu­nica attraverso il cibo che si mangia e attraverso le parole che si scam­biano. Mentre uno parla, gli altri mangiano e ascoltano, poi i ruoli si invertono quasi spontaneamente: chi tace smette di mangiare e inizia a parlare e chi ascolta riprende a mangiare. Forse, anche a questo serviva l’ingiunzione di «non parla­re a bocca piena».
(…) Invitare qualcuno – parenti, amici, conoscenti… – è un atto di grande fede, di profonda fiducia nell’altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo, distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente. Chi non pratica questa ospitalità vive in angustie, vive «poco», mi verrebbe da dire. Non conosce la gioia che è maggiore nell’invitare che nell’essere invitati. Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l’atto in sé è ricompensa. Non è un caso che anche nel Vangelo, uno degli insegnamenti di Gesù che ridimensiona l’assoluto della reciprocità – oggi tanto di moda quando ci fa comodo – riguarda proprio l’invito a tavola: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio».

Poter dire in verità «la mia casa è aperta, la mia tavola non è solo per me e per i miei» significa aprirsi agli altri, dar loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi nuovi orizzonti. Non si tratta di fare della propria tavola un «salotto» che esibisca lo status raggiunto, bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l’amicizia gratuita.
Quando c’è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di gratitudine, così che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro… Chi mi ha educato mi diceva sempre che è la tavola il luogo in cui ci esercitiamo a vivere la fede, la speranza, l’amore. La tavola è il luogo della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro, dell’amore nello scegliere, preparare, offrire e servire il cibo agli altri. In questa scuola di umanizzazione tre elementi legano il pasto dall’inizio alla fine: il pane, le bevande e la parola. Ma è la parola che costituisce il legame più profondo fra tutti gli attori del pasto: è la parola che narra gli alimenti diversi che giungono in tavola, è la parola che unisce i presenti e gli assenti, i commensali e gli altri, è la parola che mette in relazione il passato con il presente, aprendoli al futuro. La parola a tavola può essere davvero strumento di comunione, mezzo privilegiato per conferire senso al pasto, per valorizzare il gusto degli alimenti, per suscitare l’arte dell’incontro. Stare a tavola insieme è un linguaggio universale tra i più determinanti e decisivi per l’umanizzazione di ciascuno di noi. A tavola, piccoli e grandi, vecchi e giovani, genitori e figli, siamo tutti commensali, tutti con lo stesso diritto di parola e con lo stesso diritto al cibo che arricchisce la tavola. Davvero stare a tavola è molto più che saper nutrirsi: è saper vivere.

La chiamata di Mosè

Vi lascio, alunni di prima, il video della chiamata di Mosè.

Il brano in questione lo trovate nel libro dell’Esodo, capitolo 3, dal versetto 1 al 21.

Benedetto XVI e la falsa libertà

La vera minaccia (…) è che la tolleranza venga abolita in nome della tolleranza stessa (…) che la cosiddetta ragione occidentale sostenga di aver finalmente riconosciuto ciò che è giusto e avanzi così una pretesa di totalità che è nemica della libertà.
Nessuno è costretto a essere cristiano. Ma nessuno dev’essere costretto a vivere secondo la nuova religione come fosse l’unica e vera (…). 
(dal libro intervista a Benedetto XVI  “Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa, i segni dei tempi“)