Il cuore della fede cristiana

Paradosso, certo, la risurrezione. Ma, proprio per questo, può essere narrato in modo credibile solo da altri paradossi, da quell’amore folle che arriva ad abbracciare perfino il nemico. Il cuore della fede cristiana è esattamente questo: credere l’incredibile, amare chi non è amabile, sperare contro ogni speranza. Sì, fede, speranza e carità sono possibili in ogni condizione, anche la più sofferta, se si crede alla risurrezione“.
(Enzo Bianchi da La Stampa del 24 aprile 2011)


La madonna di Guadalupe

Alcune sere fa, ho accolto l’invito rivolto da un sacerdote, amico di famiglia, di assistere nella sua parrocchia ad un video-documentario sulla Madonna di Guadalupe, per vivere al meglio questo mese mariano.
Maria appare alle persone più umili e nei momenti di maggior bisogno, come nel Messico del 1531,ma soprattutto, come testimonia quell’apparizione, invita gli uomini a riscoprire la comune origine, pur nelle differenze legate alla cultura e alle tradizioni. L’immagine impressa, in modo ancora inspiegabile, nel mantello dell’indio a cui Maria apparve, è ricca infatti di simbologie che potevano essere ben comprese dalle popolazioni indie, ma anche dagli stessi spagnoli. E’ come se Maria avesse usato registri linguistici diversi, come accadde a Pentecoste (ricordate il miracolo delle lingue?) per portare un messaggio di pace e speranza comprensibile a tutti.
Siamo nel dicembre del 1531 in Messico. La Madonna appare a un umile indio, ma nessuno gli crede. Su richiesta della Vergine l’indio avvolge nella sua tilma (un mantello di ayate, un ruvido tessuto di fibre d’agave, usato dagli indios poveri per coprirsi) delle rose di Castiglia, inspiegabilmente fiorite su una desolata pietraia. Davanti al vescovo apre il telo e si scopre il miracolo: vi è impressa l’immagine della Madonna.
L’immagine è straordinariamente reale. I risultati delle analisi, a cui il telo è stato sottoposte, sconvolgenti. Negli occhi della Vergine sono impresse le 13 figure presenti nel momento del miracolo. Le stelle del manto riproducono la posizione esatta degli astri nel giorno del miracolo (12.12.1531). La tecnica pittorica usata è sconosciuta. I colori si conservano intatti, la tela è incorrotta, nonostante quel tipo di tessuto sia piuttosto fragile e inadatto a durare nel tempo.
Ma non è tutto: una straordinaria connessione rivela che il nome di Guadalupe è nato in realtà nella regione dell’Estremadura in Spagna, e le sue radici risalgono addirittura all’Evangelista San Luca.
Vi lascio il trailer del documentario che ho avuto modo di vedere per intero.

Quest’altro video vi aiuterà a saperne di più.

Vi lascio anche alcuni link, per approfondire il mistero del telo.
Cliccate qui e qui.

La testimonianza dei cristiani

“(…) i credenti devono mostrare che la vita è più forte della morte, e devono farlo nel costruire comunità in cui il «noi» si fa carico di ciascuno e l’«io» rinuncia a prevaricare, nel perdonare senza chiedere il contraccambio, nella gioia profonda che permane anche nelle situazioni di sofferenza e di persecuzione, nella compassione per ogni creatura, soprattutto per gli ultimi e i sofferenti, nella giustizia che porta a operare la liberazione dalle situazioni di morte in cui giacciono tanti esseri umani, nell’accettare di spendere la propria vita per gli altri, nel dare la vita liberamente e per amore, fino a pregare per gli stessi assassini, come tanti testimoni hanno fatto, ancora ai nostri giorni“.
(Enzo Bianchi da La Stampa del 24 aprile 2011)

La fede cristiana e chi non crede in Dio

Quali elementi della fede cristiana possono interessare il non cristiano, chi non ha la fede in Dio e in Gesù Cristo? Il cristiano infatti crede che Gesù è stato risuscitato da Dio, ma perché? Perché Gesù era suo figlio, certo, ma più in profondità ancora perché Gesù ha saputo come uomo, in una condizione umanissima, vivere l’amore fino all’estremo, fino a «raccontare il Dio che è amore». Quell’amore vissuto concretamente e quotidianamente da Gesù con tutti quelli che incontrava – amici e nemici, giusti e peccatori, intelligenti e insipienti – quell’amore che è rimasto intatto anche nella sofferenza, nella persecuzione, nella prova, quell’amore che non si fermava davanti all’avversario e all’omicida, quell’amore non poteva andare perduto. Il duello, sempre presente nelle nostre vite, tra morte e amore, nella vita di Gesù è stato un duello in cui l’amore ha vinto la morte e il male.
Per questo Gesù è risorto, perché neanche l’oceano del male e della morte può spegnere l’amore vissuto. Un messaggio così, come può non interessare anche chi non crede in Gesù? L’amore riguarda tutti gli esseri umani!
(Enzo Bianchi da La Stampa del 24 aprile 2011)

Uno scienziato, la fede e la scienza

Se non ci fosse pericolo di essere fraintesi, verrebbe da dire che il cristianesimo è esattamente scientifico; ma la verità è un’altra, è che la scienza per natura sua è cristiana: cioè ricerca della verità, cioè attenta indagine su quella che è la volontà di Dio che si esprime nell’ordine naturale (scienza) e nell’ordine soprannaturale (fede e teologia). Quindi è inconcepibile e assurdo qualsiasi ipotetico contrasto fra fede e scienza, fra vero progresso scientifico e teologia e morale“.
(Enrico Medi, scienziato, credente)

Un omaggio a Giovanni Paolo II

Per ricordare il grande Giovanni Paolo II, diventato beato il primo maggio, vi lascio una canzone, scritta da Roberto Bignoli, cantautore di musica cristiana. Il titolo “Non temere” ricorda l’espressione che più volte, con dolcezza e vigore, questo grande uomo ha rivolto agli uomini e alle donne del nostro tempo. Egli ci ha esortato a confidare in Dio, ad affidarci alla sua misericordia, a non aver paura, perchè Gesù non toglie nulla alla nostra vita, come potete cogliere da queste immagini che sono state trattedal libro “La vita di Giovanni Paolo II a fumetti“, Edizioni Piemme.

Quando a vincere è la solidarietà

Dell’’invasione’ di Lampedu­sa non c’è più traccia. La col­lina è stata ripulita, per le stra­de nessun bivacco. I migranti ci sono, continuano ad arrivare, ma si trova­no nel centro d’accoglienza ormai de­congestionato. Tutti tranne uno. O­mar, 19 anni appena fatti, ha trovato casa sull’isola. Non avrebbe potuto sopportare la vita al centro, né il rim­patrio, né il trasferimento in altri campi italiani. La sua fragilità psico­fisica implorava accoglienza e Lam­pedusa ha risposto. Una famiglia di volontari della parrocchia di San Ger­lando, impegnata per settimane nel­l’assistenza ai tunisini, nel distribui­re cibo, bevande, coperte, ha fatto di più, molto di più. «…Tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fra­telli l’avete fatto a me». E loro non hanno avuto esitazione.
Hanno raccolto questo ragazzo solo e terroriz­zato dal mondo e lo hanno portato nella lo­ro casa, per curarlo.
Raimondo Sferlazzo, la moglie Renata, i figli E­manuele e Alessio, so­no diventati la sua fa­miglia, quella che non ha mai avuto neppure in Tunisia.
Omar ha un vissuto che assomiglia alla sceneggiatura di un film. Abbandonato dalla madre, vit­tima di un compagno violento, è sta­to cresciuto da una cugina, cristia­na, che sin da bambino gli ripeteva: «Se ti dovessi trovare in difficoltà nel­la vita, vai in una chiesa. Lì qualcu­no di aiuterà». E così ha fatto. Sbar­cato a Lampedusa assieme ad altre migliaia di persone, non riusciva a sopportare l’idea di stare con quella folla per strada o nell’accampamen­to. Omar si è nascosto nelle campa­gne e un giorno, gracile come un ba­stoncino, ha bussato alla parrocchia di San Gerlando di Lampedusa. Lì, i volontari alle prese con centinaia di migranti che chiedevano di potersi lavare, di poter mangiare, riposarsi, cambiarsi i vestiti luridi, hanno a­perto anche a lui. Hanno capito che si trattava di un caso particolare. Quel ragazzo sembrava smarrito, sot­to shock, non parlava, tremava.
«Quando vedeva uomini in divisa in giro, si addormentava. Era una sorta di autodifesa» racconta Raimondo Sferlazzo, che a quel punto non ha avuto dubbi. «Abbiamo deciso di prenderlo con noi e piano piano si sta aprendo, comincia a mangiare un po’ di più, si sta affezionando. Ha bi­sogno di essere aiutato» sottolinea.
Aveva bisogno anche Helmi, che u­na sera per strada chiese a Raimon­do le sigarette «e io me lo portai a ca­sa per dargli anche le coperte. Ri­mase a mangiare e poi lo accompa­gnai nella tendopoli. Poi mi chiese se poteva mettere il materasso sotto ca­sa mia, in strada. A quel punto io e mia moglie lo invitammo a dormire in un letto vero». Avevano bisogno anche Mohammed di 18 anni e Am­za di 19, che Raimondo ha accom­pagnato alla partenza piangendo. «Li ho sentiti per telefono, quando sono arrivati al Nord. Stanno tutti bene» racconta con emozione.
Adesso tocca a Omar, che ha già preso pos­sesso della cucina di ca­sa Sferlazzo e prepara ottimi dolci tunisini. Lo hanno portato da una psicologa del poliam­bulatorio, sarà seguito con attenzione. È riu­scito a ottenere un per­messo per sei mesi, du­rante i quali cercherà di incollare i cocci di una vita frammentata.
È una delle tante storie dell’altra fac­cia di Lampedusa, quella dell’acco­glienza, che può diventare un esem­pio per tutta la Chiesa siciliana. Ne è convinto Valerio Landri, direttore del­la Caritas agrigentina, che è tornato per alcuni giorni sull’isola per in­contrare uno ad uno i volontari del­la comunità parrocchiale, perché l’e­sperienza vissuta non venga spreca­ta, «ma possa essere messa a servizio dell’intera Chiesa agrigentina – dice -. Questo gruppo ha maturato una competenza nell’intervenire nell’e­mergenza, che può essere condivisa anche con gli altri gruppi Caritas». Non è un caso che all’inizio di giu­gno il primo convegno diocesano del­la Caritas si svolgerà a Lampedusa, proprio dove la Storia sta lasciando la sua impronta.
(Omar ha cercato rifugio in chiesa e trovato la sua prima famiglia  di Alessandra Turrisi in Avvenire del 20 aprile 2011)